sabato 21 agosto 2010

LA STREGA AURORA



LA STREGA AURORA





Quando gli Sherpa arrivarono all'ennesimo ponte sospeso, in uno stentato inglese, spiegarono alle due donne che li avevano assoldati a Kathmandu che non sarebbero mai andati oltre quel punto. A loro non era consentito sfidare spudoratamente le loro divinità, avevano troppa paura; nessuno di loro si era mai avventurato oltre quel ponte e chi, in passato, aveva osato farlo, non era mai più ritornato. Se le donne avessero voluto proseguire, lo avrebbero fatto a loro rischio e pericolo; avrebbero lasciato loro lo stretto indispensabile da portare in spalla dentro gli zaini, alcuni viveri, delle tavolette di cioccolato, un fornelletto da campeggio e la leggera tenda biposto a igloo. Loro sarebbero rimasti tre giorni, non di più, ad aspettarle. La giornata era splendida: l'aria rarefatta dei quasi 4.000 metri di quota faceva sembrare il cielo ancor più azzurro e le vette delle montagne più alte della Terra sfidavano, con le loro guglie innevate, lo stesso cielo limpido. Aurora e Larìs avevano sfilato le calde giacche a vento in Gore-Tex, che le avevano finora protette dalle improvvise bufere di neve, spesso incontrate durante quei cinque giorni di Trekking. Il loro scopo non era sicuramente quello di fare una vacanza estrema, ma quello di giungere al Tempio della Conoscenza e della Rigenerazione e incontrare il Grande Patriarca, per poter attingere al sapere universale conservato in quel tempio e diventare così adepte del livello più alto della Setta. Sapevano già che, da quel punto in avanti, avrebbero dovuto proseguire da sole, affidandosi al loro intuito e ai loro poteri: se avessero fallito, se avessero sbagliato strada, sarebbe stato estremamente improbabile che si fossero salvate, avrebbero trovato la morte tra quelle montagne. Aurora pagò il pattuito al capo Sherpa e gli disse che, se voleva, se ne poteva andare anche subito, ma il tipo dai lineamenti asiatici, che reggeva le redini di un lama, scosse la testa e ripeté: “Three days”. Scaldò un Tè forte per le due donne e le congedò, salutandole con la mano, mentre mettevano gli zaini in spalla e si avventuravano sul ponte sospeso su un abisso di almeno 800 metri di altezza. Larìs cercò con lo sguardo gli occhi azzurro-verdi di Aurora, che le trasmisero tutta la forza e l'energia di cui aveva bisogno: era poco tempo che la conosceva, ma si fidava ciecamente di lei e dei suoi poteri esoterici. Larìs Dracu era partita dalla Transilvania, una regione della Romania, che in quella fine degli anni '80 era ancora governata da un dittatore comunista: già a 18 anni si era fatta una fama di strega anticomunista e, per non cadere nelle mani della Polizia segreta del generale Ceausescu ed essere sicuramente uccisa, con non poche difficoltà aveva raggiunto l'Italia. Si era spinta fino a quel paesino della Liguria, dove aveva saputo vivesse un'adepta della sua stessa Setta, che l'avrebbe sicuramente aiutata e l'avrebbe anche guidata nel proseguire il suo cammino fino a farle raggiungere il livello più alto, quello oltre il settimo. Quando giunse alla casa di Aurora, il giorno dell'equinozio di primavera all'ora media, e vide che la sua ospite la stava aspettando sulla soglia di casa con la porta aperta, non rimase sorpresa, in quanto conosceva i poteri veggenti della maga. Aurora guardò con compiacimento quella bellissima ragazza, dai capelli neri lucidi, tirati indietro e raccolti in un corto codino, gli occhi scuri, quasi neri, i lineamenti del viso delicati, le linee sinuose del corpo che facevano immaginare, sotto i vestiti attillati, una perfezione di seni, glutei e gambe rari da vedersi. La maga era una sessantenne in ottima forma: i capelli biondi erano leggermente striati di bianco, gli occhi cangiavano di colore dall'azzurro al verde, a seconda della luminosità dell'ambiente, il suo corpo aveva ancora il vigore di una quarantenne e la sua pelle era tirata e non era solcata da rughe evidenti. Il suo sguardo era magnetico e quando gli occhi di Larìs incontrarono quelli di Aurora, la ragazza provò un forte impulso di desiderio sessuale nei confronti della maga. Aurora pronunciò delle parole in una lingua incomprensibile ai comuni mortali; non era la lingua occitana, tipica di quella zona di confine tra l'Italia e la Francia. La ragazza era in grado di capire quella lingua, per averla appresa da bambina, quando sua nonna la aveva iniziata alle pratiche magiche ed esoteriche: era il Semants, l'antica lingua degli adepti, la cui origine si perdeva nella notte dei tempi, una lingua conosciuta già ai tempi dell'Egitto dei Faraoni da maghi e Sciamani, ma che aveva origini anche più antiche. Aurora invitò Larìs ad entrare in casa e la guidò in un salone perfettamente quadrato: una delle pareti del salone era occupata interamente da una specchiera, per cui si aveva l'impressione che il salone fosse molto più ampio di quanto in realtà non era, mentre le altre tre pareti erano quasi completamente occupate da scaffalature, dove trovavano posto molti libri e manoscritti e alcuni vasi di porcellana, del tipo di quelli che si vedevano un tempo nelle farmacie e nelle erboristerie. Ma Larìs fu attirata soprattutto dal pavimento: in marmo lucidissimo di diversi colori, giallo, turchino, verde smeraldo, era stato realizzato il disegno di uno dei principali simboli esoterici, un pentacolo, una stella a cinque punte, inscritto in un cerchio, a sua volta perfettamente inscritto nel perimetro quadrato della stanza. Il simbolo dello spirito, una specie di asterisco, all'interno del pentagono formato dalle linee dalla cui unione prendeva origine la stella a cinque punte, indicava il centro esatto della stanza; in ognuno degli altri settori in cui il pavimento era diviso dalle linee e dagli archi di cerchio si potevano riconoscere varie figure, ognuna legata alla simbologia: la luna crescente e la luna calante, la luna piena, la congiunzione del sole con la luna nell'eclissi parziale e nell'eclissi totale, e altri ancora.
Larìs era allo stesso tempo affascinata e imbarazzata.
“Nella casa in cui sono vissuta, in Transilvania, c'era un salone identico a questo.” disse rivolgendosi ad Aurora nella stessa lingua in cui poco prima aveva parlato la maga. “La piastrella centrale indica il punto esatto in cui in passato è accaduto qualcosa di importante, qualcosa di infinitamente bello o di estremamente brutto. Mia nonna raccontava che, in quel punto esatto della mia dimora, tanti secoli or sono, un Principe sceso dai Monti Carpazi, in una notte di luna piena, aveva fatto l'amore con una bellissima fanciulla e da quell'accoppiamento era nata una bambina, che avrebbe dato origine alla nostra stirpe. Ma, a parte questo, so anche che, provocando l'abbassamento di quella piastrella, scatta un meccanismo che mette in evidenza una serratura nascosta dietro uno scaffale: mia nonna sfilava dal collo una catena d'oro in cui era infilata una chiave, anch'essa dorata, la infilava nella serratura e la specchiera si spostava e lasciava accesso a una stanza segreta, dove erano conservati libri, manoscritti, pergamene anche molto antiche, che le sue ave le avevano tramandato e che era il sapere a cui concedeva di avere accesso a coloro che aspiravano a divenire adepti del settimo livello.”
“Da come parli, e da quello che vedo con i miei poteri, so che tu hai già avuto accesso a quei documenti e possiedi, come me, i poteri del settimo livello, pertanto è inutile che apra a te la stanza segreta che si nasconde dietro lo specchio: insieme, invece, potremo affrontare il cammino che ci porterà al livello più alto, quello del sapere universale.”
Mentre parlava, Aurora aveva preso del tabacco da un prezioso contenitore di porcellana e lo aveva messo in due cartine, per arrotolarle con abilità a formare due sigarette: ne offrì una a Larìs, poi accese un fiammifero, avvicinando la fiamma prima alla sigaretta della giovane, poi alla sua. Aspirando un'ampia boccata di fumo, Larìs capì che al tabacco erano state mescolate sostanze stupefacenti ad eccitanti, ma lei era già abituata a fumare quel tipo di miscela: se non lo fosse stata, sarebbe caduta preda del volere della maga, come in un'ipnosi provocata contemporaneamente dalla droga e dai poteri occulti di Aurora. La droga stimolò invece in lei il desiderio sessuale, si avvicinò ad Aurora e si lasciò baciare e carezzare; spente le sigarette, le due si spogliarono e giacquero insieme sul nudo pavimento, fino a che Larìs raggiunse un violento orgasmo.
“Adesso che abbiamo unito i nostri corpi, uniremo le nostre menti e le nostre anime.” disse Aurora alla ragazza ancora ansimante per il piacere provato. “Oggi è un giorno particolare, unico, e dobbiamo sfruttare i nostri poteri uniti per evocare lo spirito di Artemisia, la mia ava bruciata sul rogo esattamente quattro secoli fa.”
Larìs seguiva incuriosita il suo discorso, mentre osservava che dalla finestra la luce che entrava stava diminuendo e già la luna piena era evidente nel cielo ancora azzurro del tardo pomeriggio.
“Il 21 marzo 1589, esattamente quattrocento anni fa, Artemisia fu legata al palo che era conficcato nel terreno proprio lì, dove ora vedi la piastrella pentagonale contrassegnata dal simbolo dello spirito, quella che indicavi prima. Oggi è l'equinozio di primavera, la luna piena fra qualche ora verrà oscurata dall'ombra della terra in un'eclissi totale: è una congiunzione astrale molto rara da verificarsi. Notte ideale per un Sabba, a cui noi però non parteciperemo. Tu sei arrivata qui proprio in queste ore, perché io da sola non avrei avuto la forza di fare quello che stiamo per fare.” Da uno scaffale prese un calice dorato, si tagliò accuratamente i biondi peli pubici, fino a rendere la zona genitale completamente glabra, e raccogliendoli dentro il calice; stessa cosa fece poi con i peli pubici di Larìs, molto più scuri dei suoi. Quindi prese da alcuni contenitori delle erbe essiccate, compresa un po' di quella miscela che avevano fumato in precedenza, e mescolò il tutto all'interno del calice, aggiungendo dell'olio; dopo di che, depose con cura il calice al di sopra della piastrella centrale. Poi preparò altre due sigarette, che avrebbero fumato, ancora completamente nude, per raggiungere un certo grado di oblio, quasi ad andare in trance. Intanto si era fatto buio e dalla finestra si vedeva lo splendente cerchio della luna, che lentamente veniva oscurato dall'ombra circolare della Terra proiettato su di lei dal sole, in quel raro momento magico di allineamento dei tre corpi celesti. Nel momento in cui la luna fu completamente oscurata e la sua posizione era evidenziata solo da un alone, le due donne, nude, sedute sul pavimento unirono le mani e i piedi a formare un cerchio intorno e sopra il calice. Aurora pronunciò una formula magica: “Has Sagadà , Artemisia”.
La finestra si spalancò, una saetta entrò nel salone e finì all'interno del calice incendiandone il contenuto: si levò un fumo grigiastro, dal cattivo odore di carne bruciata, che ricordava l'odore della strega messa al rogo quattro secoli prima. Il fumo si modellò e prese le sembianze di una donna, che volteggiando e danzando raggiunse Aurora e si fuse con lei. Adesso Aurora era Artemisia e Artemisia era Aurora. Larìs assisteva inerme a questo fenomeno. Quando l'ultimo filo di fumo scomparve assorbito dal corpo di Aurora e il contenuto del calice si fu dileguato completamente, le due donne caddero in un sonno profondo ed ebbero la visone di ciò che era accaduto quattrocento anni prima. Aurora viveva la visione in prima persona, nei panni di Artemisia, mentre Larìs la viveva come spettatrice, mescolata alla folla che assisteva al supplizio della strega.
Artemisia era legata al palo: sotto i suoi piedi erano state sistemate parecchie fascine, derivanti dalla potatura degli olivi, e poi dei ciocchi più grossi di legna resinosa di pino e di abete. Il tutto era stato anche cosparso abbondantemente di olio per lampade. Agli altri quattro pali, che erano stati disposti a semicerchio dietro il suo rispetto agli spettatori, erano state legate le sue quattro compagne: Viola, Emanuela, Alessandra e Teresa, quest'ultima detta il maschiaccio, in quanto era stata sorpresa più volte mentre giaceva con altre donne e gli Inquisitori avevano scoperto addirittura che era un ermafrodita, un essere in cui convivevano organi sessuali maschili e femminili, una donna dal clitoride talmente sviluppato da simulare un piccolo pene, capace anche di raggiungere l'erezione. Queste quattro donne non sarebbero state bruciate, anche se qualche fascina era stata deposta ai loro piedi: avevano confessato le loro colpe e avevano indicato Artemisia come loro “guida spirituale”, pertanto erano state legate ai pali come monito e per assistere da vicino al supplizio della loro ispiratrice. Come mai stava per aver luogo l'esecuzione, dal momento che il Doge di Genova aveva messo il veto agli Inquisitori della Chiesa, assicurando alle donne che non avrebbe permesso, in quei tempi moderni, una condanna ad una morte così atroce? Il Doge andava fiero del fatto che un suo concittadino avesse scoperto, neanche un secolo prima, una nuova terra, l'America, mettendo fine ufficialmente a quel periodo buio che era stato il Medioevo: non avrebbe pertanto mai permesso che la Chiesa, tramite l'Inquisizione, avesse fatto bruciare vive pubblicamente queste donne, anche se erano state giudicate colpevoli di stregoneria, eresia, commistione con il diavolo, delitti contro Dio, contro la Chiesa e contro gli uomini. Il tutto era cominciato un anno e mezzo prima, nell'autunno del 1587, quando il Podestà, Stefano Carrega, e il Parlamento locale avevano indicato le streghe abitanti alla Ca Botina come principali responsabili della grave carestia, che da qualche tempo si era abbattuta su tutta la zona, e avevano chiesto al Vescovo di Albenga di istituire un processo alle presunte streghe, affinché fosse messa fine alle loro malefatte con una punizione esemplare: la condanna al rogo. Erano giunti in paese due Inquisitori, due frati Domenicani vestiti di nero: uno era il Vicario del Vescovo e l'altro il Vicario dell'Inquisitore di Genova. I “corvi”, come li chiamava la gente del luogo, fecero arrestare le cinque streghe abitanti alla Ca Botina, le quali, sotto tortura, accusarono molte altre donne del paese, non solo di origini contadine, ma anche appartenenti alle famiglie più nobili. Ad un certo punto, gli Inquisitori erano arrivati ad arrestare circa duecento presunte streghe e il Consiglio degli Anziani, considerato anche che già due donne erano morte, una per le torture inflitte, un'altra caduta da una finestra in seguito a un tentativo di fuga, decise di rivolgersi al Doge di Genova, perché ponesse rapidamente fine al processo e facesse sì che venissero condannate le vere streghe, quelle della Ca Botina, il gruppo strettamente legato ad Artemisia, in tutto tredici donne e una fanciulla di 13 anni. Il governo genovese, quindi, non del tutto convinto della regolarità del processo a Triora, decise di interessarsene più da vicino. Passarono pertanto alcuni mesi, in cui mentre il Doge di Genova e il Vescovo di Albenga non trovavano un accordo su di chi fosse la competenza di procedere, le donne rimanevano in prigione alla mercé di carcerieri che non risparmiavano loro umiliazioni e abusavano di loro, anche sessualmente. Nel successivo mese di Maggio, giunse a Triora l'Inquisitore Capo, per visitare le donne in carcere ed accertarsi della situazione. Dopo averle di nuovo sottoposte alla tortura del fuoco, confermò le accuse per le tredici donne e lasciò libera la ragazzina; le donne furono processate, con le accuse di reato contro Dio, commercio con il demonio, omicidio di donne e bambini. Ad Agosto si giunse alla conclusione del processo, con la condanna a morte per Artemisia e le altre quattro donne più strettamente unite a lei: Emanuela Giauni, detta Emanuela la Capricciosa, Viola e Alessandra Stella e Teresa Borelli,detta Teresa il Maschiaccio, per la sua abitudine di portare i capelli corti, vestire abiti maschili e giacere con altre donne. Quando sembrava che ormai l'esecuzione della condanna, per impiccagione e incenerimento dei resti, delle cinque fosse imminente, intervenne il Padre Inquisitore di Genova, chiedendo che fosse rispettata la sua carica, fino a quel momento estromessa dal processo. Spettava a lui, infatti, in quanto rappresentante dell'Inquisizione di Roma, giudicare i crimini delle streghe. Così, le cinque condannate vennero trasportate a Imperia e da lì, a bordo di una nave, fino a Genova, dove furono rinchiuse nelle carceri governative, in quanto l'Inquisizione non aveva posto sufficiente, andando a far compagnia ad altre presunte streghe provenienti da altre cittadine della zona. Tutto sembrava andare per il meglio, in quanto il Doge aveva promesso che avrebbe fatto in modo, ora che erano sotto la sua protezione, di salvare loro la vita. Le avrebbe tenute in carcere per un periodo, poi, quando la gente si fosse cominciata a dimenticare di loro, le avrebbe rese libere, col patto di non fare ritorno al loro paese di origine. Ma il maligno, sotto le spoglie mortali del Podestà e del capo del Consiglio degli Anziani di Triora, ci mise lo zampino: fu facile corrompere i carcerieri con poche monete d'argento, sostituire le cinque streghe con altrettanti cadaveri di povere donne, morte per malattia o per gli stenti dovuti alla carestia che ancora imperversava tra i monti dell'alta Valle Argentina, e riportare le cinque streghe a Triora per un'esemplare esecuzione pubblica.
Legata al palo, Artemisia ripercorreva con la mente le principali tappe della sua vita, a partire dalla sua iniziazione, avvenuta quando era poco più che tredicenne, nel cerchio magico creato da sua mamma, sua nonna e altre adepte della Setta, nei pressi della Fonte della Noce, una fontana situata sotto un grande albero di noci. Già allora aveva percepito la forte presenza del Maligno, una forza negativa all'esterno del cerchio, che voleva le sue vittime per assimilarne i poteri e diventare impareggiabile nella sua malvagia potenza. Gli insegnamenti che gli avevano trasmesso la mamma e la nonna, l'acquisizione dei poteri della veggenza e dell'uso del tatto e della vista, per percepire e guarire i mali del corpo e dell'anima, erano stati da lei sempre utilizzati a fin di bene. Aveva imparato i poteri curativi di certe erbe, era in grado di fare pozioni che abbassavano la febbre, che toglievano i dolori, che aiutavano le donne partorienti, che non avevano doglie sufficienti, a far uscire il nascituro; aveva imparato ad usare, alle giuste dosi, spore di funghi velenosi, da applicare su ferite infette, in modo da far regredire le secrezioni purulente. Aveva anche capito come prevenire il vaiolo, prendendo delle croste da persone malate, stemperandole in una mistura di erbe particolari, inoculando poi la sostanza così ottenuta con l'aiuto di appositi aghi in uova di gallina contenenti un pulcino, e richiudendo il foro con della cera. Prima che le uova schiudessero, prelevava l'albume, che, deposto su una piccola ferita praticata sul braccio con un coltellino, dava origine ad una limitata lesione da vaiolo: il suo paziente, così trattato, non avrebbe contratto mai più la malattia. Aveva imparato a fare talismani, a recitare le formule magiche di rito, ad eseguire incantesimi di invisibilità, a formare i cerchi magici protettivi. Non aveva mai usato i suoi poteri per scopi malvagi, mai: eppure era stata additata come strega e, insieme alle sue quattro compagne più fidate, Emanuela, Viola, Alessandra e Teresa, era stata imprigionata e torturata con la corda, con il fuoco, con l'acqua. All'inizio dell'Estate era giunto nella sua cella il Podestà, Stefano Carrega: era lui che aveva iniziato la caccia alle streghe e, in quel momento, Artemisia capì che era lui che rappresentava il male, la grande minaccia che incombeva su di lei e sulle sue amiche. Già indebolita dalle torture, completamente nuda, fu legata mani e piedi al “cavalletto”, due pali di legno disposti a X, a croce di Sant'Andrea, cosicché avesse braccia e gambe divaricate. I carcerieri le rasarono i peli della zona genitale, poi la lasciarono sola con il Podestà: egli si avvicinò, sollevando la tunica e mostrando un grosso pene già in erezione. Non c'era possibilità per Artemisia, legata com'era, di sottrarsi alla violenza sessuale, ma sapeva che doveva essere forte, non doveva assolutamente cedere al piacere, altrimenti, con l'atto sessuale, lui le avrebbe sottratto tutti i suoi poteri e le sue conoscenze, assumendole su di sé. Riuscì vittoriosa: mentre sentiva il caldo eiaculato penetrare nelle sue viscere, dispose la sua mente ad essere il più lontano possibile da lì, a vagare per i boschi a lei cari, e il suo corpo a non provare neanche un fremito, neanche un sussulto. Il Podestà era furibondo.
“Peggio per te, strega: morirai sul rogo, tu e le tue compagne, e, mentre brucerete, la forza delle fiamme trasferirà su di me i vostri poteri.”
Il fatto di aver vinto quella battaglia le aveva dato un barlume di speranza e quando, nonostante la condanna degli Inquisitori, lei e le sue quattro compagne vennero trasferite a Genova, pensò che il pericolo si stesse allontanando. Certo era che, dopo il rapporto col Podestà, non le era più venuto il ciclo mestruale: portava in grembo un figlio, o meglio, come poteva percepire, una figlia. Si rifiutava di pensare che fosse figlia del maligno: pensava che l'avrebbe comunque inizializzata alle pratiche magiche ed esoteriche, proprio come era stato fatto con lei da sua madre e da sua nonna, e che, anzi, quella figlia avrebbe avuto dei poteri soprannaturali veramente forti, in grado di contrastare qualsiasi potenza maligna e portare avanti nel bene la sua stirpe. Ma, dopo qualche mese, il maligno aveva ripreso in pieno le sue forze: si era alleato con il Consiglio degli anziani e aveva inviato a Genova degli uomini incappucciati per riportare lei e le sue quattro compagne a Triora, dove sarebbero state giustiziate. A Marzo Artemisia era quasi al termine della gravidanza: quando giunse a Triora, il capo del Consiglio degli anziani, Giulio Scribani, volle accertarsi personalmente del suo stato, in quanto non poteva permettere che, insieme alla strega, fosse bruciata sul rogo una creatura innocente. Artemisia usò tutti i suoi poteri per penetrare nella sua mente: si sarebbe sacrificata sul rogo, purché il suo sacrificio fosse servito a salvare sua figlia e le sue compagne. Il Podestà già aveva fatto allestire i cinque roghi e già pregustava lo spettacolo di quella sera, in cui, per una rara congiunzione astrale, in quel giorno di equinozio di primavera, giorno di plenilunio, si sarebbe verificata un'eclissi totale della luna. Ma Giulio impose il suo volere.
“Non voglio assistere a una barbara strage. Ho mandato una levatrice da Artemisia: conosce i sistemi per procurarle un parto anticipato. Il neonato sarà affidato a una nutrice. Solo Artemisia, che è la più potente delle streghe, sarà bruciata. Le altre, legate ai loro pali, assisteranno alla sua esecuzione e poi saranno marcate in modo tale che ognuno che le incontri le riconosca come streghe e le eviti: ognuna ha già uno strano tatuaggio sulla gamba destra, nella parte interna del polpaccio, che raffigura tre tomi, tre libri, e che rappresentano i libri che hanno consultato e che hanno studiato per diventare adepte della loro setta. Faremo completare quel tatuaggio con delle fiamme che avvolgano i libri: lo stesso tatuaggio sarà fatto ad ogni primogenito femmina nella discendenza di queste streghe!”
Il Podestà lanciò lampi di odio nei confronti dell'anziano, ma non poteva contraddirlo: bene, almeno la parte dei poteri di Artemisia la avrebbe potuta assumere. Ma Artemisia, legata al palo, in attesa che le fiamme fossero appiccate alla sua catasta, rimaneva concentrata e formava una barriera protettiva nei confronti delle sue amiche, che erano in contatto telepatico con lei, e la posizione a semicerchio degli altri patiboli dietro il suo favoriva la protezione. Così, quando dalla folla degli spettatori si levarono grida - “Non le risparmiate, bruciatele tutte!” - e un uomo, con una torcia accesa in mano, riuscì a scavalcare la barriera delle guardie e avvicinare pericolosamente la fiamma al rogo di Teresa, questo non si incendiò e due guardie presero sottobraccio l'uomo e lo rispedirono in mezzo al pubblico con un calcio sul sedere. L'uomo rotolò a terra e si fermò proprio ai piedi di Larìs, che gli lanciò uno sguardo di disapprovazione. Pochi istanti dopo, il boia prese una torcia da un braciere, prima la sollevò in alto per mostrare a tutti le fiamme, dopo di che la avvicinò alla catasta di legna disposta ai piedi di Artemisia, che si incendiò immediatamente. Artemisia, prima che le fiamme cominciassero ad avvolgere il proprio corpo, rivolse lo sguardo alla luna, che in quel momento era completamente oscurata dal fenomeno dell'eclissi e percepibile solo come una sfera scura circondata da un alone argentato, e lasciò andare il suo spirito. Doveva assolutamente evitare che i suoi poteri e la sua sapienza si trasferissero a Carrega, indirizzandoli invece, con l'aiuto telepatico delle compagne, alle quali il suo sacrificio aveva salvato la vita, verso la sua bambina, che aveva da poche ore partorito e che si sarebbe chiamata Aurora, come la luce del primo mattino che precede l'alba. In breve, le fiamme ebbero ragione del corpo di Artemisia e lo avvolsero: la donna si trasformò in torcia umana, i capelli bruciarono, i vestiti si incenerirono, lasciando scoperta la carne, che diventò prima rossa, poi nera. La sagoma di Artemisia, che ancora si contorceva, era ormai solo intuibile in mezzo al muro di fuoco, che ardeva rombante. Alla fine, il fumo e le fiamme penetrarono nei polmoni di Artemisia, che, con un ultimo prolungato grido di dolore, spirò.
Quando Aurora e Larìs ritornarono alla realtà erano ancora nude, distese sul freddo pavimento di marmo, ma nonostante ciò i loro corpi erano imperlati di sudore per la tensione dell'esperienza appena vissuta. Aurora, ancora stordita, prese un Kimono di seta, lo indossò e ne offrì uno simile alla ragazza, che era in preda ai brividi e fu ben felice di metterselo addosso; quindi andò in cucina a preparare una tisana rilassante, tornando dopo qualche minuto con due tazze fumanti, che spandevano un aroma di menta nel salone.
“Perché abbiamo avuto questa visione, che significato ha?” chiese Larìs, cominciando a riprendersi.
“Credo di aver capito che il maligno, che è rimasto quiescente per quattro secoli, stia riprendendo vigore e voglia sacrificare delle vittime per aumentare la sua forza e la sua potenza. Dobbiamo fare attenzione, perché quelle vittime potremmo essere io, tu, o le altre nostre sorelle, discendenti da coloro che quattrocento anni fa scamparono alla morte tra le fiamme.”
“Come possiamo prepararci ad affrontarlo? Abbiamo abbastanza forza per farlo?”
“Mia cara Larìs, tu ed io dovremo affrontare un lungo e periglioso viaggio fino al tempio dove vive il Grande Patriarca, che ci offrirà l'accesso al sapere universale, di cui Lui è custode. Ci sarà data la forza e la sapienza necessaria.”
Passo dopo passo, reggendosi alle corde laterali, erano giunte circa a metà di quel ponte che oscillava pericolosamente a ogni loro movimento; una folata di vento più forte fece gelare letteralmente il cuore di Larìs, che cercò di nuovo gli occhi di Aurora, per sentirsi rassicurata. Con cautela, le due sfilarono gli zaini dalle spalle, indossarono le giacche a vento e proseguirono fin quasi a raggiungere la radura erbosa al di là del ponte. Da lì partivano almeno cinque sentieri, che si dirigevano in direzioni diverse: quale poteva essere quello giusto da seguire? Aurora vide due rami incrociati con della terra smossa intorno; cercò un lungo ramo e, facendo attenzione a non andare a calpestare la terra smossa, distrusse la croce, con lo stesso ramo disegnò poi un cerchio in terra, recitando delle parole, che Larìs riconobbe come quelle di un contro incantesimo. Era chiaro che qualcuno aveva fatto un sortilegio per metterle in difficoltà sul cammino da seguire: ma Aurora aveva molta esperienza in fatto di sortilegi e incantesimi. Completato il cerchio e rivolte le parole verso il cielo, immediatamente fu evidente che dalla radura partiva un solo sentiero ed era quello che dovevano seguire: attraversata la lingua di un ghiacciaio, il sentiero cominciò a discendere, fino a che le praterie d'altura lasciarono il posto ad un bosco, che si faceva via via sempre più fitto man mano che si scendeva. Ad ogni bivio, ad ogni biforcazione del sentiero, le due, d'istinto, sapevano quale direzione seguire: il bosco offriva frutti e bacche mangerecci e ogni tanto trovavano una fonte d'acqua fresca, per cui, anche se i viveri di scorta cominciavano a scarseggiare, non c'era modo di dover soffrire la fame o la sete. Anche le temperature si erano fatte più gradevoli e non c'era più bisogno delle giacche a vento; al quinto giorno di cammino, uscendo dal fitto bosco si ritrovarono in una vallata meravigliosa, in fondo alla quale videro la loro meta. Il tempio era una costruzione antichissima, doveva avere millenni, ma essendo in una zona così inaccessibile ai comuni mortali, essendo solidamente costruito sulla roccia e non essendosi mai verificati eventi sismici in quel luogo, si era mantenuto intatto nel corso dei secoli e dei millenni. Ma quello che destò immediatamente lo stupore delle due donne fu la centrale idroelettrica che si intravedeva sul retro del tempio: una cascata, che con forza cadeva da una parete a strapiombo della montagna, da un'altezza di diverse centinaia di metri, alimentava delle turbine, che fornivano energia elettrica all'antico edificio. Accanto alle turbine, una serie di pannelli solari provvedevano a fornire probabilmente acqua calda e, forse, contribuivano anch'essi in parte a generare energia elettrica. Un antesignano impianto fotovoltaico, probabilmente non ancora in funzione, completava la centralina, che rendeva quell'oasi completamente autonoma dal punto di vista energetico.
Giunte all'ingresso del tempio, due uomini dall'aspetto fisico incredibilmente perfetto, le accolsero.
“Siate benvenute al tempio della Conoscenza e della Rigenerazione. Il Grande Patriarca vi sta aspettando e, appena possibile, vi riceverà. Nel frattempo saremo le vostre guide, vi condurremo ai vostri alloggi e faremo in modo di rendere piacevole la vostra visita in questo incantevole luogo. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, chiedete e cercheremo di accontentarvi. Io sono Ero e il mio compagno è Dusai.”
I due uomini, vestiti solo con una corta tunica colorata, erano alti e possenti, i muscoli evidenti sembravano scolpiti come quelli delle antiche statue Greche, tanto erano perfetti. Ero aveva capelli biondi, ricci, piuttosto lunghi, carnagione chiara, anche se lievemente abbronzata, e occhi azzurri del colore del cielo; Dusai era moro, aveva capelli neri corti, occhi scuri e la carnagione del colore dell'ebano. Mentre Dusai si prendeva cura di Aurora, Ero si inchinò avanti a Larìs e prese cortesemente il suo bagaglio: i quattro, attraversato un cortile perfettamente quadrato, si addentrarono nell'edificio e camminarono lungo corridoi finemente decorati, ora con scene di caccia, ora con scene di guerra, ora con scene di accoppiamento tra animali. Arrivarono, alla fine, ad un chiostro, al centro del quale c'era una piscina, mentre sotto i portici si aprivano le porte delle stanze degli ospiti. Qui le decorazioni rappresentavano accoppiamenti tra uomini e donne, in tutte le posizioni possibili e immaginabili tratte dai più impensabili manuali di Kamasutra.

martedì 24 novembre 2009

La prima indagine del Commissario Caterina Ruggeri: "Delitti esoterici"














PROLOGO




La voce del comandante dell'aereo che avvertiva i passeggeri dell'ormai imminente atterraggio mi riportò alla realtà. In quell'ora di volo da Ancona a Genova, la mia mente era stata impegnata da un turbinio di pensieri: erano accadute tante cose in quegli ultimi giorni e la mia vita era ad una svolta. Pensavo al mio passato e pensavo al mio futuro. Finalmente un incarico importante: la dottoressa Ruggeri era stata nominata commissario ad Imperia. Non credevo che questa nomina arrivasse così presto. Gli anni trascorsi a fare la responsabile del Gruppo Cinofilo della Polizia di Stato presso l'Aeroporto Raffaello Sanzio di Ancona erano stati entusiasmanti, perché avevo avuto la possibilità di fare un lavoro che mi era sempre piaciuto fin dalla tenera età, lavorare e addestrare i cani della Polizia, dai cani antidroga, a quelli per la ricerca sotto le macerie, dai cani antisommossa a quelli per la ricerca di tracce e persone scomparse. D'altro canto, oltre a fare un lavoro che mi piaceva moltissimo, avevo avuto anche il tempo di dedicarmi allo studio e finalmente laurearmi in Giurisprudenza, specializzarmi in Criminologia e così sperare nell'agognato avanzamento di carriera. Certo è che la passione per i cani non l'avrei mai abbandonata: quella passione mi era stata trasmessa da un mio cugino veterinario, Stefano, ora cinquantenne direttore sanitario della Clinica Veterinaria "Aesis". Stefano era stato sempre il mio segreto amore, fin da quando ero ragazzina: cugino di secondo grado, dodici anni più grande di me, aveva sempre esercitato su di me un grande fascino. Ricordo come fosse ieri quel giorno di Ferragosto di 25 anni fa. Io ero poco più che una bambina, avevo fatto la seconda media e dovevo ancora compiere tredici anni, mentre lui si era da poco laureato in Veterinaria a Perugia. In quei giorni ero in vacanza con la mia famiglia, il papà, la mamma e i miei due fratellini gemelli, Alfonso e Stella: eravamo da alcuni giorni in una bellissima località dei Monti Sibillini a 1400 metri di quota, dove ci eravamo piazzati con il nuovissimo carrello tenda acquistato da mio padre che era un patito di vacanze alternative e non ci avrebbe mai portato in vacanza in albergo neanche morto. I due gemelli erano stati concepiti dai miei genitori in seguito ad un tragico incidente domestico in cui aveva perso la vita un altro mio fratello che si chiamava Alfonso come il nuovo fratellino e della cui morte mio padre si era sentito sempre responsabile, fino ad arrivare alle crisi depressive che lo avrebbero portato al suicidio da lì a qualche anno dopo. Insomma, un'adolescenza un po' incasinata la mia! La mia famiglia e quella di Stefano erano molto unite: Stefano aveva un fratello e due sorelle tutti più piccoli di lui, di cui la più piccola era mia coetanea, e spesso eravamo tutti insieme. Quel giorno era arrivato di buon mattino con la sua auto insieme alle sue due sorelle e sua madre per trascorrere insieme a noi il giorno di Ferragosto. Era una splendida giornata, serena, limpida, senza una nuvola in cielo: l'aria frizzantina della montagna ispirava una bella camminata e decidemmo di arrivare fino a un rifugio a un'ora e mezzo di cammino da lì, da dove, con un'altra mezz'ora di salita piuttosto impegnativa si poteva raggiungere una cima denominata Pizzo Tre Vescovi. Per tutta la strada ignorai la mia cuginetta coetanea per cercare di stare il più vicino possibile a Stefano e poter chiacchierare con lui: mi feci raccontare dell'Università, dei suoi progetti attuali e futuri, del come e del perché ultimamente avesse lasciato la sua fidanzata con cui era stato insieme per oltre cinque anni. Io e Stefano eravamo quelli più appassionati di montagna e più temprati alla fatica fisica, così, quando arrivammo al rifugio, mentre gli altri decisero di riposarsi e dedicarsi alla raccolta di mirtilli e lamponi, io e lui decidemmo di prolungare l'escursione fino in vetta. Mio padre mi disse che ci avrebbero aspettato al campo per pranzo entro l'una: con un gesto un po' infantile, ma mirato, presi Stefano per mano e mi avviai con lui per il sentiero scosceso e piuttosto faticoso. Lo spettacolo in vetta ripagava della fatica fatta per arrivarvi: in una giornata così limpida si poteva scorrere lo sguardo dai monti dell'Umbria verso Ovest al Mar Adriatico verso Est, dai monti del Pesarese verso Nord alla sagoma massiccia del Monte Vettore verso Sud, che precludeva di gettare lo sguardo verso i monti della Laga e l'Abruzzo. Guardavo il panorama e guardavo i meravigliosi occhi verdi di Stefano, che mi parlava indicandomi i nomi delle varie montagne che riusciva a riconoscre. Più lo guardavo e più lo sentivo parlare e più sentivo una grande attrazione verso di lui: aveva un viso simpatico, ornato da una leggera barba, i capelli folti e scuri e due occhi verdi che a me piacevano incredibilmente. Essendo poco più di una bambina, non sapevo di preciso cosa significasse innamorarsi, ma in quei momenti capivo che stavo provando delle sensazioni nuove: che mi stessi innamorando? Ridiscendemmo sempre chiacchierando amenamente e raggiungemmo il resto della compagnia, giusto in tempo per la spaghettata che aveva preparato mia madre: un'ottima amatriciana, accompagnata da salsicce alla brace e per finire i lamponi raccolti da fratelli e cugine durante l'escursione. Al termine del pasto proposi a Stefano di andare in una radura lì vicino per sdraiarci a prendere un po' di sole; presi un plaid e ci dirigemmo a circa duecento metri dal campo, fuori dalla vista degli altri. Mi tolsi maglietta e jeans e rimasi con un bikini rosa, appena sufficiente a coprire i miei seni ancora piuttosto immaturi; anche lui si mise a torso nudo e ci sdraiammo sul plaid l'uno accanto all'altra, godendo del sole pomeridiano che riscaldava la nostra pelle. Mi girai verso di lui e premetti i miei piccoli seni contro il suo torace; mentre mi guardava con aria interrogativa, gli dissi: "Insegnami come si bacia un ragazzo!" e avvicinai il mio viso al suo socchiudendo gli occhi. Sentii le sue labbra unirsi alle mie e la sua lingua che entrava nella mia bocca per una fugace esplorazione: mi venne istintivo roteare la mia lingua intorno alla sua. Ero in estasi: stavo provando delle sensazioni mai provate prima, i capezzoli si erano inturgiditi e sentivo la mia zona genitale pulsare, un lieve rivolo di liquido di cui non capivo la natura scese a bagnarmi leggermente. Non so quanto durò, credo pochi attimi; quando Stefano si rese conto di quello che stava facendo si fermò, sia pur dolcemente e credo a malincuore, mi allontanò e mi disse: "Caterina, non è una cosa possibile tra noi due, non dovevo lasciarmi andare. Sei una ragazzina molto carina e diventerai una bellissima donna, hai due occhi azzurri splendidi, che spiccano ancor di più sotto quel caschetto di capelli mori. Non avrai difficoltà alcuna a trovare un bel ragazzo adatto a te: io ti ho visto da quando eri in fasce e ti assicuro che ti voglio tanto bene, ma come a una sorella! E poi dodici anni di differenza sono un abisso: tu sei poco più che una bambina e io sono già un uomo quasi pronto a sposarsi. Comunque a Settembre partirò per iniziare la Specializzazione in Piccoli Animali a Pisa e starò via per due anni: ti garantisco che ti scriverò e ti farò avere il mio indirizzo. La mia amicizia e il mio affetto per te ci sarà sempre, ma consideriamo l'episodio di oggi come un gioco e non ne parliamo più." Arrossendo, feci cenno di sì con la testa, ma quel bacio sarebbe rimasto nella mia mente e nel mio cuore come il più bello che mai qualcuno mi avesse dato: e comunque, da come sudava e dalla protuberanza che si poteva notare sui suoi pantaloni e che non avevo mai visto prima, capivo che non era stata una cosa che lo avesse lasciato indifferente. A quel tempo i cellulari non esistevano, e quindi i contatti si potevano tenere solo scrivendosi lettere e cartoline o attraverso i telefoni fissi: perciò per qualche anno i rapporti con Stefano furono sporadici e solo due anni dopo riuscii a trascorrere qualche giorno con lui. Avevo terminato il primo anno dell'Istituto Tecnico Femminile ed ero stata promossa con ottimi voti, ma l'estate si preannunciava noiosa e senza grandi prospettive di vacanze, in quanto in famiglia i litigi tra mio pade e mia madre erano sempre più frequenti e inoltre mio padre stava andando incontro a crisi depressive sempre più frequenti. Era una calda giornata di Luglio quando mia madre mi chiamò, dicendomi che c'era mio cugino Stefano al telefono che voleva parlarmi; mi precipitai all'apparecchio col cuore in gola. "Ciao, Caterina: ho fatto l'esame del secondo anno di Specializzazione e ho qualche giorno di vacanza prima di iniziare il tirocinio di due mesi nella clinica universitaria; poi a Ottobre dovrò presentare la mia tesi di Specializzazione, quindi per me si preannuncia un'estate piuttosto impegnativa! Perché non mi raggiungi qui a Pisa e facciamo un bel giretto in Toscana? Una bella vacanzetta farà sicuramente bene a entrambi, a te per distrarti un po' dalla tua situazione familiare, e a me per riposarmi qualche giorno dalle fatiche dello studio!" Chiesi il permesso ai miei, che non fecero alcun problema, in quanto si fidavano ciecamente di Stefano, presi il treno e raggiunsi Pisa. Trovai Stefano ad aspettarmi nell'atrio della stazione: mi prese cortesemente il borsone e salimmo a bordo della sua auto, una Citroen 2CV, con la quale avremmo girato la Toscana nei giorni successivi, pernottando in ostelli o ospitati presso suoi amici conosciuti all'Università. Visitammo delle bellissime città: Pisa stessa, San Gimignano, Siena, Arezzo, facemmo un'escursione sull'Appennino Tosco-Emiliano (per non dimenticare la nostra passione per la montagna) e alla fine giungemmo a Firenze, dove ci ospitò suo fratello, che era iscritto ad Architettura, ma tutto faceva tranne che studiare. L'ultima sera, dopo cena, facemmo una passeggiata a piedi per Firenze: era caldo e io ero piuttosto stanca. Camminammo sul Lungarno fino a raggiungere Ponte Vecchio: era una splendida serata, la luna quasi piena in cielo si rispecchiava sul fiume e lo spettacolo era veramente romantico. Approfittando della stanchezza, mi appoggiai a lui, passandogli un braccio intorno al collo: lui, in risposta prese delicatamente la mia mano che era sopra la sua spalla, carezzandola un po' e cinse i miei fianchi con l'altro braccio. Rimanemmo così, in silenzio, vicini e abbracciati, guardando il paesaggio fiorentino. Mi aspettavo un bacio, che però Stefano stavolta non ebbe il coraggio di darmi: avrei voluto che quel momento non finisse mai, sarei voluta rimanere lì così per sempre. E invece il mattino seguente Stefano mi riaccompagnò alla stazione di Firenze a prendere il treno per il ritorno. La breve vacanza era terminata, ma io pensavo ancora a quell'abbraccio della sera precedente e sentivo ancora la sua mano che sfiorava la mia e avevo il cuore colmo di gioia: com'ero innamorata! Ma quando giunsi a casa, trovai mio padre e mia madre che stavano litigando furiosamente e questo spense tutta la poesia che si era creata dentro di me. Com'è possibile, pensai, che due persone che si sono amate, che hanno condiviso la loro vita per oltre venti anni, arrivino a trattarsi così? Decisi che sicuramente il matrimonio non faceva per me!
Avevo quasi 19 anni quando, in un tiepido inizio di autunno, mio padre si uccise sparandosi un colpo alla tempia con una pistola che custodiva gelosamente e di cui io non sapevo neanche l'esistenza. La sua vita era stata segnata da quella tragedia avvenuta circa dodici anni prima in cui era rimasto ucciso il mio fratellino di circa 3 anni; a mio padre la domenica piaceva cucinare, preparava la brace nel caminetto e ci cuoceva di tutto, spiedini, salsicce, verdure gratinate, polli allo spiedo. Quel giorno aveva acceso il fuoco e preparato la graticola sul tavolo: Alfonso per gioco prese la graticola e si mise a correre per la stanza con quell'oggetto in mano. Cercando di scongiurare un pericolo, mio padre lo rincorse, lui inciampò e cadde a terra, la graticola volò in aria e ricadde sulla nuca del povero fratellino; una punta metallica trovò giusto lo spazio tra due vertebre cervicali, infilandosi nel midollo spinale e provocando la morte immediata del piccolo. Il papà non si dette mai pace per questo episodio; insieme a mia madre decise di fare un altro figlio per compensare la perdita e nacquero i due gemelli. Il fatto di chiamare di nuovo Alfonso il maschio forse non fu una brillante idea, perché ogni volta che i miei pronunciavano il suo nome ritornava loro in mente la tragedia. Col passare del tempo, sentivo i miei genitori litigare sempre più spesso: mia madre ogni volta gli faceva pesare la sua responsabilità riguardo la morte del bambino, così mio padre andò incontro alla depressione, cominciò delle sedute di psicoterapia, il terapeuta lo imbottì di psicofarmaci e alla fine giunse al suicidio. Sentii quello strano forte rumore provenire dal suo studio e, non rendendomi conto di cosa fosse, andai di corsa verso la stanza di mio padre con un brutto presentimento e lo vidi accasciato sulla scrivania: accanto a lui un laconico biglietto con scritto "perdonatemi". Non riuscii a versare una lacrima; mia madre non sembrava neanche troppo dispiaciuta del fatto, forse prese la cosa come una liberazione. Fatto sta che avevo bisogno in quel momento di parlare con qualcuno che mi comprendesse. Stefano aveva aperto ormai da quattro anni un piccolo ambulatorio in periferia e si era fatto già un buon nome in zona come Veterinario: andai lì verso l'ora di chiusura e aspettai pazientemente che uscisse l'ultimo cliente. Solo tra le sue braccia riuscii finalmente a dare sfogo a tutte le mie lacrime: lui mi lasciò fare, tenendomi abbracciata e carezzandomi dolcemente i capelli. Quando il pianto si esaurì, mi resi conto che il mio trucco con le lacrime si era completamente trasferito sul suo lindo camice bianco, formando una bella macchia violacea, ma sembrava che questo non lo preoccupasse. Gli dissi: "Ho sofferto troppo in questi ultimi anni, ho visto troppo male intorno a me e vorrei rimediare cercando di fare un lavoro che serva a qualcuno e nello stesso tempo possa darmi soddisfazione personale. Dammi tu un consiglio!" Lui mi sorrise e finì di asciugare le mie lacrime con un gesto estremamente dolce: "Ti sei diplomata da poco con il massimo dei voti all'Istituto Tecnico Femminile con indirizzo Scienze Sociali, hai una buona conoscienza di psicologia e sociologia, in più adori gli animali, i cani in particolare. Un mio cliente, che è sovrintendente in Polizia, mi ha detto giusto qualche giorno fa che è in cantiere un progetto di realizzare un gruppo cinofilo della Polizia di Stato dipendente dalla Questura di Ancona; in attesa che arrivino i fondi e le attrezzature, gli hanno assegnato un Pastore Tedesco da utilizzare come cane antidroga al Porto di Ancona. Perché non provi la carriera in Polizia? Ti ci vedo bene, poi una volta entrata avrai sicuramente la possibilità di far valere le tue qualità di esperta cinofila: io sono qui e ti aiuterò sempre quando ne avrai bisogno!" Sul momento ero talmente frastornata che considerai l'idea un po' strana, ma poi, considerando anche il fatto che non mi ritenevo assolutamente adatta al matrimonio, data la pessima esperienza di quello dei miei genitori, dopo pochi giorni mi ritrovai in Questura ad Ancona a compilare la domanda per entrare nella Polizia di Stato.
La carriera non sarebbe stata facile come credevo. Passò un po' di tempo prima che mi chiamassero e nel frattempo mi ero iscritta alla facoltà di Giurisprudenza a Macerata, entusiasmandomi per tutto ciò che riguardasse la criminologia. Non feci in tempo a fare neanche un esame, perchè mi chiamarano per entare nella scuola di addestramento della Polizia di Stato a Roma; a quei tempi non erano molte le donne che decidevano di fare la carriera in Polizia. La scuola aveva la durata di un anno ed era veramente dura, ma io mi distinsi sia nell'addestramento alla difesa personale, sia nel lavoro con i cani. Al poligono di tiro ero una delle migliori, ma chi mi vedeva lavorare con i cani, sia che fossero antidroga, sia che fossero antisommossa, sia che fossero quelli addestrati all'attacco e alla difesa, poteva dire che io e il cane che conducevo senbravamo un tutt'uno per come lavoravamo insieme. Chiaramente, in mezzo a tutti quegli uomini, non vi dico quali e quanti fossero i commenti sul mio aspetto fisico! Uscii dalla scuola di addestramento con la qualifica di Agente scelto e fui assegnata alla Questura di Ancona. Arrivata lì, sembrava che a nessuno fregasse qualcosa delle mie capacità e della mia abilità con i cani; per lungo tempo lavorai a bordo delle volanti per le strade della città, a fare posti di blocco e ad arrestare ubriachi, drogati e prostitute. Tutto sommato non era quello il lavoro che mi aspettavo, inoltre quando finivo il turno ero talmente esausta che era impensabile mettersi sopra i libri per riprendere lo studio e fare qualche esame all'Università. Ma non abbassavo la guardia: cercavo l'occasione per dimostrare ai miei superiori le mie vere capacità. Dopo un paio di anni di servizio l'avanzamento di carriera a sovrintendente era automatico e potei finalmente fare da partner ai colleghi ispettori in qualche indagine. D'altro canto, la ventilata idea del gruppo cinofilo dipendente dalla Questura di Ancona era stata monopolizzata da un collega, il sovrintendente Carli, distaccato al Porto, dove quest'ultimo si faceva i porci comodi suoi, facendo fiutare all'unico Pastore Tedesco assegnatogli qualche turista di passaggio e sfilando a qualcuno qualche grammo di droga dalle mutande. Ma la droga vera, quella che sapevamo benissimo transitare a chili attraverso il porto di Ancona, non riusciva a scoprirla.
Finalmente l'occasione arrivò: insieme all'ispettore Ennio Santinelli, un tipo in gamba, ma a cui mancava quella marcia in più che serve a distinguersi dagli altri, stavamo indagando su un traffico di cani rubati, che secondo noi andavano a finire all'estero, dopo essere stati "ripuliti" dell'eventuale tatuaggio: secondo lui erano per lo più cani da caccia, che poi avevano un certo mercato in Grecia, Albania e Turchia. Secondo me c'era dell'altro, anche perchè spesso si trattava di cani meticci e di tutte le età, anche abbastanza anziani; avevo interpellato Stefano e anche a lui come Veterinario la cosa non quadrava: "Se si vuol far soldi con traffici internazionali di cani, o sono cani da caccia di alta genealogia e giovani, o sono cani addestrati al combattimento. Qui c'è qualcosa che non porta" mi disse al telefono. Una mattina di marzo arrivò un fax da parte di un'associazione animalista Greca: ci veniva segnalato che su un TIR imbarcatosi a Patrasso a bordo di un traghetto destinato ad Ancona e che ufficialmente avrebbe dovuto trasportare cavalli, in mezzo agli equini c'erano almeno un centinaio di cani trasportati in condizioni disumane. Il sovrintendente Carli quel giorno non era in servizio e l'ispettore Santinelli era un po' restio ad andare al porto, vuoi per il freddo pungente di quella mattina, vuoi perché non voleva invadere il campo del collega. "Non credo che questa cosa ci interessi più di tanto" disse Santinelli "vai tu, Caterina, a dare un'occhiata e, se lo ritieni necessario fai intervenire il Servizio Veterinario pubblico". Quando arrivai alla banchina in cui era attraccato il traghetto dalla Grecia, c'era già un bel trambusto di animalisti, che reclamavano il sequestro immediato degli animali. Dall'altra parte, il Capitano del traghetto invocava il fatto che sulla nave, come da convenzioni internazionali, le autorità Italiane non potevano intervenire e lui aveva ricevuto un messaggio dall'armatore Greco di non far sbarcare il TIR, che sarebbe dovuto ritornare indietro a Patrasso. Tutto questo mi faceva fiutare che sotto ci doveva essere qualcosa di grosso; chiesi i documenti del TIR, il piano di viaggio e i documenti accompagnatori degli animali. Il camion, motrice e rimorchio, proveniva dalla Turchia ed aveva come destinazione finale Hannover: dai documenti di trasporto risultava che avrebbe dovuto trasportare solo cavalli destinati alla macellazione. Cercando di farmi capire in lingua inglese dall'autista greco, riuscii a carpirgli l'informazione che trasportava anche qualche cane in mezzo ai cavalli: mi mostrò alcuni certificati sanitari attestanti la vaccinazione antirabbica e altre vaccinazioni, ma scritti in greco mi dicevano veramente poco. L'autista asseriva che c'erano una quarantina di cani a bordo, mentre nel fax che ci era arrivato in centrale gli animalisti ce ne segnalavano almeno un centinaio. Volevo far sbarcare il camion per controllarlo accuratamente e con calma, ma il Capitano della nave si continuava ad opporre: avevo bisogno di un'escamotage. Presi il cellulare e, anche se a quei tempi le tariffe di telefonia mobile fossero ancora molto salate, chiamai Stefano, che mi diede una bella dritta: "Se gli animali sono in viaggio da più di 24 ore, per il loro benessere e per le vigenti leggi internazionali, devono essere abbeverati, alimentati e fatti riposare: quindi imponiti sul capitano e fai sbarcare il TIR. Vedrai che il tipo non potrà rifiutarsi, pena la perdita del suo bel posto di lavoro!" Il capitano minacciò che avrebbe protestato ufficialmente ma alla fine fece sbarcare il camion: al suo interno c'erano pochi cavalli e tantissimi cani. Chiamai immediatamente l'ispettore Santinelli e il magistrato di turno, perché avevo intenzione di porre sotto sequestro l'intero carico di animali: superando la riluttanza del collega e del magistrato, che erano veramente inquieti, in quanto si sarebbe dovuto trovare un posto per sistemare in maniera adeguata tutti questi animali, ottenni ciò che volevo. Quando potei finalmente controllare questi cani, 102 all'appello finale, quello che più colpiva è che erano tutti cani di media taglia, tutti meticci e presentavano delle groppe dalla muscolatura piuttosto prominente: "Perché no? - pensai tra me e me - hanno trovato un modo per contrabbandare qualcosa infilandola chirurgicamente nel sottocute di questi poveri animali! Ma come faccio a spiegarlo ai miei superiori?". Con l'aiuto preziosissimo del cugino Veterinario, feci sistemare i cavalli in una stalla di un suo amico e i cani in un bellissimo canile moderno e appena finito di costruire, che lui seguiva dal punto di vista sanitario. Il canile era dotato di un'attrezzatissima infermeria, dove Stefano eseguiva degli interventi di pronto soccorso su cani feriti; c'era in dotazione anche un'ecografo, più che altro per diagnosticare le gravidanze sulle cagne ospitate. Se volevamo scoprire qualcosa, bisognava farlo in fretta, perché già si stavano muovendo avvocati di fama internazionale per ottenere il dissequestro degli animali, e ciò faceva aumentare ancor di più i miei sospetti sul fatto che c'era sotto qualcosa di veramente interessante; inoltre anche il collega Carli stava facendo fuoco e fiamme perché avevamo invaso il terreno di sua competenza e il tipo vantava conoscenze importanti nelle alte sfere, addirittura al Ministero degli Interni. "Proviamo a fare qualche ecografia alle groppe di questi cani." mi disse Stefano, mentre carezzava la testa di una di quelle simpatiche bestiole. Non appena tosò il pelo del primo cane, si accorse che l'animale presentava una cicatrice perfettamente lineare su ognuno dei due lati a fianco della colonna vertebrale lombare: "Sono cicatrici perfette, non sembrano tagli chirurgici perché non ci sono i segni trasversali dei punti di sutura; ma se uno sa fare bene il mestiere, facendo una particolare sutura sottocutanea, si ottengono delle cicatrici estetiche tipo queste. Io stesso non saprei fare di meglio." Poi mise la sonda dell'ecografo sulla parte:"C'è una densità veramente anomala del tessuto sottocutaneo: direi di portare alcuni di questi cani in sala chirurgica e vedere che cosa c'è sotto questi tagli." Messo in anestesia il cane che aveva sotto mano, preparò chirurgicamente la parte e tagliò esattamente sopra la cicatrice: sporco di sangue, estrasse un involucro ben sigillato che in trasparenza mostrava una polvere bianca, che sicuramente non era né farina, né zucchero: "Droga, evidentemente." osservai "Con tutta probabilità cocaina o eroina, proveniente dall'Afghanistan e destinata in Germania attraverso la Turchia, la Grecia e l'Italia: hanno inventato un bel trucco, ma secondo me qualcuno di mia conoscenza glielo ha suggerito. I cani antidroga sentono solo l'odore di altri loro simili e la droga in dogana non viene certo scoperta. L'intervento chirurgico viene effettuato ad opera d'arte alla partenza, aspettano che le ferite cicatrizzino e il pelo degli animali ricresca: ma poi probabilmente all'arrivo questi animali vengono massacrati, probabilmente uccisi, per tirarne fuori il prezioso contenuto. Un vero schifo!" Informai immediatamente della scoperta il magistrato, che predispose che gli animali fossero operati in condizioni sicure, asportando il contenuto in droga, e poi fossero fatti ritornare in perfetta forma per poter essere affidati a persone di buon cuore. Stefano nella sua clinica si diede da fare praticamente giorno e notte per operare tutti i cani, concedendosi poche ore di riposo e sapendo che nessuno probabilmente l'avrebbe pagato per quel lavoro: ma pur di farmi fare una bella figura avrebbe fatto questo e altro. Alla fine ci ritrovammo con 204 sacchetti da mezzo chilogrammo ognuno, il cui contenuto il laboratorio della scientifica confermò essere eroina pura: un valore di circa centotrenta miliardi delle allora vecchie Lire (circa 60 milioni di Euro). Scoprimmo anche che il sovrintendente Carli c'era in mezzo fino al collo e fu arrestato per favoreggiamento. A quel punto l'indagine passava per competenza all'Interpol, che avrebbe cercato di scoprire la rete di trafficanti a partire dagli elementi fin lì scoperti.
Qualche giorno dopo, il questore mi convocò nel suo ufficio per farmi le sue congratulazioni: "Complimenti, Ruggeri, grazie al suo intuito abbiamo fatto un gran bel lavoro e al Ministero si sono complimentati con noi; ho già firmato la proposta per il suo avanzamento di grado a Ispettore capo. Inoltre abbiamo scoperto che Carli stava facendo di tutto per insabbiare le proposte e i fondi che arrivavano dal Ministero per il progetto del gruppo cinofilo. Ora che Carli non c'è più, proporrò che la responsabilità del progetto passi direttamente sotto la sua direzione: potrà disporre dei fondi come meglio crede, scegliere come costruire la struttura, ma soprattutto scegliere i cani e gli uomini. Da parte mia la proposta è di lasciare il porto completamente alla Guardia di Finanza, che già controlla la dogana, mentre noi ci riserveremo uno spazio all'aeroporto Raffaello Sanzio, in quanto dall'anno 2000 sarà potenziato e noi potremmo rientrare nel progetto di potenziamento stesso. Che ne dice?" "Grazie, Dottore, ma non credo di meritare tutto ciò", dissi timidamente, abbassando lo sguardo, "ho fatto solo il mio dovere!"
"Suvvia, niente false modestie! E poi c'è dell'altro: prima cosa, i prossimi giorni convocherò una conferenza stampa e sarà lei stessa a rispondere ai giornalisti su come ha condotto l'operazione. Seconda cosa, sabato sera è invitata a cena a casa mia: mia moglie è un'ottima cuoca e non accetto rifiuti!" Dopo aver conosciuto le glorie della cronaca e conquistato le prime pagine di almeno due giornali locali, mi preparai per la cena a casa del questore, il che sinceramente mi preoccupava più che rispondere ai giornalisti. Il questore, il quasi sessantenne Dr. Ianniello, abitava in una villa fuori Ancona, su una collina che dominava il centro abitato. Una splendida coppia di Doberman dal pelo lucidissimo mi venne incontro non appena mi presentai al cancello: feci ai cani alcuni complimenti e con due carezze conquistai la loro simpatia. "E' raro vedere una persona che abbia un feeling così profondo per i cani: credo proprio che lei porterà avanti egregiamente il suo nuovo incarico." Mi presentò la moglie, una donna un paio di anni più giovane di lui, nella quale scorsi subito un lampo di gelosia nei miei confronti nello sguardo. Sono sempre stata una persona all'apparenza timida, ma quando devo dire qualcosa non ho freni sulla lingua, così anche in quell'occasione partii con una delle mie battute, a dir poco insolenti: "Non si preoccupi, Signora, non insidierò suo marito, né ora, né mai: ha l'età giusta per poter essere mio padre e non credo proprio di voler essere la sua amante." Pensai che quella frase sarebbe stata la mia rovina, invece i due si misero a ridere e mi invitarono a sedermi a tavola: da quel giorno sarei stata trattata dai due, che non avevano avuto figli, come la loro figlia adottiva.
Ci vollero almeno altri due anni per mettere in piedi il distaccamento cinofili presso l'aeroporto Raffaello Sanzio. Prendemmo una parte di terreno che era stato di pertinenza dell'Aeronautica Militare, che stava sbaraccando completamente per lasciar posto all'aeroporto civile. Siccome avevo carta bianca, feci costruire l'insediamento esattamente come l'avevo in testa: dodici box chiudevano su tre lati un ampio campo di addestramento. Il quarto lato era occupato dalla palazzina dei servizi, ricavata da un vecchio edificio usato dall'Aeronautica: a piano terra avevo fatto realizzare un'attrezzata infermeria per i cani, con tanto di apparecchio radiologico, ecografo, fornito armadietto di medicinali, nonchè una sala chirurgica per gli interventi d'urgenza; poi c'erano un paio di stanze per il disbrigo delle pratiche amministrative, mentre al piano superiore avevo fatto ricavare l'alloggio per me, una stanza da letto, un bagno e una piccola cucina. Avevo infatti intenzione di dedicarmi non a tempo pieno, ma pienissimo al mio lavoro, anche in considerazione del fatto che ero sempre più convinta che mai mi sarei legata ad un uomo.
I cani li andai a scegliere personalmente nel centro cinofilo della Polizia di Stato a Nettuno, vicino Roma, dove avevo fatto a suo tempo il corso di addestramento, e in quello della Guardia di Finanza a Castiglione del Lago, sul Lago Trasimeno. Volevo dei cani perfettamente addestrati e volevo coprire tutte le specialità possibili: scelsi due Pastori Tedeschi come cani antidroga, altri due Pastori, affiancati da un Rottweiler come cani antisommossa; per la ricerca di persone sotto le macerie e sepolte da valanghe e slavine, e quindi destinati ad interventi di protezione civile, scelsi una coppia di Labrador Retriever e un Samoyedo; come cani per la ricerca di esplosivi, due Weimaraner; un altro Pastore Tedesco, un grosso maschio, fu scelto per l'attacco e la difesa personale. Un box l'avrei lasciato vuoto per eventuali altre specialità: sarebbe stato in seguito occupato dal mio Springer Spaniel, Furia, un cane assolutamente negato per la caccia, ma dal fiuto eccezionale, capace di seguire una pista e ritrovare persone scomparse solo a partire da un semplice oggetto appartenuto a chi dovesse rintracciare. Ma Furia sarebbe arrivato diversi anni dopo l'nizio dell'attività del distaccamento.
Il Questore mi aveva dato libertà di scelta anche sul personale, e scelsi uomini tra i più validi in forza nella Polizia di Stato delle varie province marchigiane: ogni uomo andava associato ad un cane, come suo conduttore, pertanto doveva essere non solo esperto nella stessa specialità a cui era destinato l'animale, ma doveva avere la pazienza di addestrare e curare il proprio cane come fosse un figlio o una parte di se stesso. Avevo qualche perplessità a proporre all'Ispettore Santinelli di essere il mio vice: di solito c'è qualche difficoltà ad accettare di essere subordinati ad una persona di cui uno è stato superiore, ma l'Ispettore accettò di buon grado, vuoi per la sua passione per i cani, vuoi forse per una passione anche per me, ma che non avrei mai condiviso.
All'inizio dell'estate del 1997 eravamo finalmente pronti a partire. L'inaugurazione del distaccamento avvenne in presenza di importanti autorità: erano presenti il Prefetto, i Sindaci di Ancona e di Falconara Marittima, diversi funzionari del Ministero degli Interni. Al termine della nostra dimostrazione del lavoro con i cani, in azioni simulate di ricerca di droga, di esplosivi e di azioni mirate a bloccare malviventi, la giornata si concluse con una stupenda esibizione delle Frecce Tricolori. Con mio grande rammarico, unica nota triste della giornata, appresi che quello era l'ultimo avvenimento pubblico a cui partecipava il Questore Ianniello, che era ormai prossimo al pensionamento.
Così, a neanche 26 anni, avevo un incarico di responsabilità e di mia grande soddisfazione: sicuramente il sostegno di Stefano, sia come medico dei nostri cani, sia come consueto amico, non venne mai meno. Tutti i cani che avevo scelto lavoravano egregiamente; l'unico di cui mi dovetti pentire fu il Rottweiler. Stefano mi aveva avvertito: "Per tenere a freno la folla, i tifosi allo stadio o i manifestanti in piazza, hai bisogno di cani che facciano scena, che incutano timore in chi li ha di fronte, ma che non procurino lesioni personali. Il Rottweiler è un traditore: sembra un bonaccione, è lì buono e seduto che ti guarda, sembra non curarsi neanche di te, ma come gli capiti a tiro, senza neanche avvertirti con un ringhio, è capace di sbranarti vivo. La forza delle sue mascelle è superiore a quella di qualsiasi altra razza di cani: misurata con il dinamometro, la forza del suo morso arriva a 230 Kg, contro gli 80 Kg del Pastore Tedesco e i 120 Kg del Mastino Napoletano. Praticamente una macchina da guerra: non ti fidare di lui!". Con mio rammarico, dopo che Thor, questo era il nome che gli avevamo dato, fece qualche brutto scherzo in addestramento ai danni del suo conduttore, dovetti decidermi a riformarlo. Di solito un cane viene riformato al termine della sua carriera, perché ormai è troppo anziano a svolgere le sue funzioni: nella maggior parte dei casi, il conduttore, che ormai ha un rapporto particolare con il cane, lo adotta e lo mantiene a casa sua, in considerazione del fatto che è un animale che ha ancora qualche anno di vita avanti a sé. Se ciò non avviene il cane riformato viene sottoposto ad eutanasia, anche perché non è pensabile che cani così addestrati vadano a finire in mani di persone non fidate, magari proprio di quei delinquenti che fino a qualche giorno prima ci aiutavano a combattere. Sapevo che la fine di Thor sarebbe stata l'iniezione letale e non riuscivo a darmi pace: ma guardavo il suo conduttore con un braccio ancora fasciato e non potevo assolutamente assumermi la responsabilità che ciò accadesse di nuovo. Thor fu presto sostituito da un altro Pastore Tedesco, questa volta scelto da me in un allevamento locale: l'avrei tirato su da cucciolo e l'avrei addestrato io stessa fino al momento di assegnarlo ad un conduttore.
A parte lo spiacevole episodio di Thor, le giornate trascorrevano velocemente. Tutti i giorni, la squadra faceva almeno 2 o 3 ore di addestramento, poi c'erano i servizi: il controllo antidroga alla dogana dell'aeroporto; i servizi durante fiere e mercati per acciuffare eventuali borseggiatori o spacciatori di droghe di vario tipo; a volte ci chiamavano anche in luoghi distanti per interventi di protezione civile, in occasione di terremoti o altre calamità naturali, per recuperare eventuali superstiti rimasti sotto le macerie; altre volte venivamo chiamati per cercare persone disperse in montagna, non solo in occasione di slavine o valanghe, ma solo perché magari si perdevano durante un'escursione. La fama della mia squadra superava notevolmente i confini marchigiani e spesso venivamo chiamati per servizi anche distanti dalla nostra base. Effettivamente notai che ci mancava un cane che sapesse fiutare una pista, seguire delle tracce, insomma aiutare il poliziotto anche in un'indagine, oltre che in un'azione. Un giorno l'Ispettore Santinelli, che era anche un cacciatore, portò un cucciolo di Springer Spaniel, figlio di una sua cagna: "Ho provato questo cane: ha un fiuto eccezionale, ma ha un grosso difetto, ha paura degli spari, per cui non posso portalo a caccia. Tu, Caterina, non hai un cane tutto tuo: ha 6 mesi, è un maschio, è in perfetta salute, regolarmente vaccinato e lo ho chiamato Furia, perché non sta mai fermo, è un terremoto. Tienilo tu: sono sicuro che con le tue capacità farai di questo cane un vero fenomeno!". Accettai la sfida e sistemai Furia nell'unico box che era rimasto sempre vuoto: sapevo che lavorare con un cane così non sarebbe stato semplice, ma dopo qualche mese ero riuscita a dominare l'esuberanza di Furia, gli avevo insegnato ad obbedirmi con dei semplici comandi, che aveva appreso molto presto perché era un animale veramente intelligente, dopo di che ero passata a lavorare sul suo fiuto. Feci visitare Furia da Stefano, che confermò che era un cane in ottima forma, resistente alla fatica fisica e dal fiuto eccezionale: "Vedrai, ti darà enormi soddisfazioni! Questo deve essere il tuo cane, non lo affidare a nessun altro e vedrai che campione che tirerai fuori!". Ed effettivamente Furia mi diede grandi soddisfazioni e non me ne sarei separata per nessun motivo. Un giorno fummo chiamati sul Monte Cucco, un monte dell'Appennino Umbro-Marchigiano, famoso tra l'altro per le sue grotte: un gruppo di speleologi si era avventurato in una grotta ancora poco esplorata, ma mentre erano dentro una frana li aveva sorpresi e aveva diviso il gruppo in due. I tre uomini che erano riusciti ad uscire erano preoccupati per gli altri due, che erano rimasti intrappolati dalla frana: avevano sentito le loro voci e avevano capito che uno dei due, che poi era il figlio di uno di quelli che erano fuori, era rimasto con una gamba intrappolata sotto un grosso blocco di roccia. Giunsi sul posto con Furia e, rendendomi conto che per scavare i detriti della frana ci sarebbe voluto troppo tempo e che la vita dei due era in pericolo, sperai che, come spesso avviene, la grotta avesse un'altra apertura, magari nascosta. Chiesi ai tre speleologi che erano lì se avessero qualcosa di appartenente ai due che erano rimasti sotto: "Questo foulard era intorno al collo di mio figlio: me lo ha passato pochi attimi prima della tragedia perchè lo stava facendo sudare." Lo feci fiutare a Furia, che come una saetta si cominciò ad arrampicare sul costone della montagna, facendomi fare una fatica dannata per stargli dietro. Arrivato ad un certo punto, si infilò in mezzo a dei cespugli e ritornò fuori ansimante: con la bocca prese il mio braccio e mi condusse in mezzo a quei cespugli, finché sentii una corrente d'aria fresca investirmi. Scostai un po' i rami e vidi l'apertura: Furia si infilò dentro abbaiando e io, accesa una torcia elettrica che avevo con me, dovetti faticare non poco per infilarmi in quel buco stretto. Gli altri soccorritori, che avevano capito, ci stavano raggiungendo: avrebbero cercato di aprire un po' di più l'apertura per calarsi con l'attrezzatura adatta a portare in salvo i due giovani speleologi. Furia e io raggiungemmo i due ragazzi, che erano veramente disperati, li confortammo finché non arrivarono gli altri, che asportarono i detriti, liberarono la gamba del ragazzo che era rimasto bloccato e lo misero su una barella per portarlo all'esterno. Questo fu il primo episodio in cui Furia dimostrò le sue capacità, ma a questo ne seguirono numerosi altri e anche a lui, oltre che a me, furono dedicati spesso articoli di cronaca sui giornali.
Certo è che, dopo qualche anno di intenso lavoro, la squadra era talmente addestrata ed efficiente che io potei permettermi qualche spazio personale e così ricominciai a frequentare la Facoltà di Giurisprudenza a Macerata. Sapevo che con la Laurea avrei potuto aspirare ad un importante avanzamento di carriera, ma non era questo che mi spingeva a studiare, bensì la mia innata passione per la criminologia, che era seconda solo a quella per i cani.
Mi appassionai in particolare ai crimini compiuti da adepti di sette cosiddette esoteriche: partendo dall'episodio delle "Bestie di Satana" avvenuto qualche anno prima, in cui dei balordi, per coprire l'assassinio di una ragazza e fuorviare le indagini, avevano inscenato Messe Nere e Riti Satanici, iniziai a studiare le vere Sette Esoteriche e cercai di scavare a fondo per arrivare alle loro origini, che si perdevano nella notte dei tempi, per capire cosa si nascondeva dietro i loro riti e di quali delitti si erano macchiati in un passato sia prossimo che remoto i loro adepti. In Italia la Liguria era effettivamente il luogo in cui si diceva che alcuni adepti si riunissero e praticassero in segreto i loro rituali, cha a volte prevedevano sacrifici, di animali o di persone. L'Inquisizione aveva combattuto queste sette fino al XVII secolo inoltrato, condannando a morte gli adepti con l'accusa di eresia o di stregoneria. Tutto questo mi affascinava particolarmente, così con la mia tesi su "Sette Esoteriche e crimini perpetrati dai loro adepti" mi laureai nel Luglio 2008 con il massimo dei voti, un bel 110 e Lode: non mancarono neanche i complimenti da parte della commissione esaminatrice per come ero riuscita ad esporre con chiarezza un argomento così scabroso. Forse proprio per questi miei studi, dopo neanche un anno sarei stata chiamata a ricoprire l'incarico di Commissario nel Distretto di Polizia di Imperia, proprio in quella zona dove sapevo esserci ancora un'intensa attività legata alle sette: un paio di giornalisti di un noto mensile a diffusione nazionale, che si erano recati a Triora per realizzare un articolo su esoterismo, streghe, sabba e via dicendo, erano scomparsi senza lasciare traccia qualche anno prima e sia Polizia che Carabinieri non erano riusciti a risolvere il mistero. Più recentemente era stata denunciata anche la scomparsa di una ragazza di 20 anni, che si era allontanata dalla sua abitazione in Abruzzo per recarsi a Triora e di cui si erano perse completamente le tracce: c'era bisogno pertanto di qualcuno che conoscesse a fondo la materia e potesse condurre delle indagini più approfondite di quanto fosse stato fatto fin ad allora.
La lettera di nomina giunse i primi giorni di Giugno e mi colse di sorpresa: mi aspettavo sì un avanzamento di carriera, ma non mi aspettavo una destinazione così lontana. Ero molto combattuta: rimanere a lavorare con i miei cani e i miei uomini o affrontare questa nuova sfida? Non sapevo neanche a chi chiedere consiglio: all'Ispettore Santinelli? Mi avrebbe sicuramente detto di andare, perché il mio posto sarebbe diventato il suo! A Stefano? Mi avrebbe sicuramente detto di rimanere, perché gli sarei mancata troppo, così lontana. No, la decisione era solo mia: avrei scelto di andare, sentivo che ormai, dopo oltre 10 anni di servizio al Distaccamento cinofili era ora di dare una svolta alla mia vita, di volare anche più in alto, e mi sentivo pronta. Ma c'erano un paio di cosette che mi frullavano in testa e che dovevo definire: innanzitutto Furia mi avrebbe sicuramente seguito, non l'avrei assolutamente lasciato a nessun altro, ma non mi piaceva l'idea che viaggiasse al mio seguito nella stiva di un aereo, pertanto avrei dovuto organizzare un viaggio a parte per lui, possibilmente utilizzando il furgone della Polizia cinofila. L'altra cosa che desideravo sistemare riguardava Stefano: mi sentivo adulta, non più una bambina, né una ragazzina, ma una donna pronta ad affrontare un impegno particolarmente importante. Era giusto quindi che anche le questioni d'amore fossero sistemate, prima di partire per una destinazione così lontana: se non avevo avuto il coraggio di farlo fino ad ora, adesso era giunto il momento. Nel corso degli anni in cui ero stata in Polizia, Stefano si era sposato ed aveva avuto due figli con una donna che sicuramente non meritava, che a me era estremamente antipatica, per quel poco che l'avevo conosciuta: lo voleva comandare a bacchetta, imponendosi sul suo carattere che sembrava così dolce e arrendevole, ma che comunque aspirava sempre alla libertà e all'indipendenza. Dopo una decina di anni di matrimonio, il divorzio risultò inevitabile: prendendo spunto da una scappatella di Stefano con una giovane collega, la moglie chiese la separazione con addebito e lo lasciò praticamente in mutande, facendosi assegnare la casa coniugale, la custodia dei figli ed un più che cogruo assegno mensile. Sicuramente lui non si era perso d'animo: aveva ristrutturato la clinica veterinaria su cui tanto aveva investito nel tempo, ricavandosi una stanza da letto con annesso bagno e, con la scusa di garantire il pronto soccorso notturno, si era piazzato lì in via definitiva. La sua clinica era ora una bellissima struttura, come ce ne sono poche nella nostra zona: una casa colonica ristrutturata, a poca distanza dal centro abitato, con un'area verde circostante in cui erano stati realizzati dei box, alcuni all'aperto in una zona ombreggiata da alberi, altri completamente chiusi, per il ricovero degli animali in terapia. Al pian terreno vi erano due sale d'attesa, dalle quali si accedeva alle sale da visita o al reparto chirurgico; al piano interrato era stato realizzato un reparto di diagnostica con sezioni di radiologia, ecografia, endoscopia, risonanza magnetica, nonché un attrezzato laboratorio d'analisi; al primo piano gli uffici amministrativi, una fornita biblioteca scientifica, studi per i medici e infine l'alloggio del Direttore Sanitario. Diversi veterinari e paramedici lavoravano nella clinica e in qualsiasi ora del giorno l'attività era sempre intensa, dal momento che l'apertura era ad orario continuato. Mi recai in clinica con Furia l'antivigilia della mia partenza a cavallo dell'ora di pranzo: mi accolse un giovane medico alto e con la testa completamente rasata: "Buon pomeriggio, Dottoressa! Qual buon vento? Problemi con il cane?"
"No, però Furia dovrà affrontare un bel viaggio fino in Liguria e vorrei farlo controllare: glielo fa Lei un bel tagliando mentre io vado a conferire con il suo capo?". Mi guardò con aria complice e mi squadrò dalla testa ai piedi, notando il mio succinto abbigliamento, consono comunque al caldo di quei giorni di fine giugno: "Vada tranquilla, penso io al suo cane, lo ritroverà nel box presso il cancello di ingresso quando uscirà; dica pure a Stefano che provvedo io a non farlo disturbare da nessuno finché Lei sarà nel suo studio." Conoscevo la strada e salii al piano di sopra. Avevo pensato a tutto, fin nei minimi particolari, eppure ero emozionatissima e mentre salivo le scale il cuore mi batteva forte. Avevo indossato un abitino rosso veramente succinto, retto da due sottili spalline, che lasciava intravedere le mie grazie e lasciava scoperte le gambe molto al di sopra del ginocchio; sotto indossavo un bikini rosa, in tutto identico, fuorché nella taglia, a quello che avevo quel famoso Ferragosto di 25 anni prima. Intravidi Stefano nel suo studio, seduto alla scrivania e intento a studiare delle cartelle cliniche: i capelli ancora folti ma ormai brizzolati, la barba ridotta a un sottile filo argenteo che scendeva dalle basette a circondare le labbra superiori e il mento, nonché il fisico ancora forte e asciutto facevano di lui un uomo estremamente affascinante ai miei occhi. Dato che al piano superiore non c'era impianto di climatizzazione, indossava il camice bianco sulla pelle nuda e poi pantaloni bianchi e zoccoli; appena mi vide alzò lo sgardo sopra gli occhiali da lettura e mi invitò a entrare. "Accidenti, Caterina: oggi sei veramente stupenda!" Non gli detti il tempo di finire la frase che, con un rapido gesto delle mie mani, feci scivolare lungo le braccia le spalline del vestitino, che in un istante cadde ai miei piedi. Ero lì, davanti a lui in quel bikini rosa che a suo tempo lo aveva fatto sognare: ero certa che non avrebbe resistito! Tolse gli occhiali girò intorno alla scrivania, chiuse la porta dello studio e si avvicinò a me: "Caterina, sei venuta per chiedere consigli professionali o per cercare guai?"
"Nessuna delle due cose: sono venuta a concludere un discorso che abbiamo iniziato 25 anni fa in cima a una montagna. Quella volta dicesti che tra una ragazzina di 13 anni e un ragazzo di 25 c'era un abisso che non poteva essere colmato; adesso io credo che le distanze tra una donna di 38 anni e un uomo di 50 non siano molto significative e che due persone adulte che hanno sempre saputo di attrarsi a vicenda non debbano continuare a nascondersi dietro un dito. E non tirarmi fuori la storia che siamo cugini: tua madre e mio padre erano cugini tra loro e quindi nel nostro DNA c'è ben poco in comune..." Non feci in tempo a finire di pronunciare tutto il discorsetto che mi ero preparata, perché lui unì la sua bocca alla mia e cominciammo a baciarci appassionatamente: mentre io slacciavo il suo camice, lui mi tolse il reggiseno e, senza riuscire a staccare le labbra, i corpi strettamente avvinghiati, ci portammo verso la stanza da letto attigua e finimmo di spogliarci vicendevolmente. Come mi abbandonai sul letto e sentii il fresco delle candide lenzuola sulla pelle nuda della mia schiena, lui cominciò a baciare tutto il mio corpo, alla ricerca delle zone erogene da stimolare: io lo ricambiai con altrettante carezze e baci. Si dilungò molto sui preliminari; non mi è dato sapere se lo facesse sempre quando faceva l'amore con una donna o se indugiasse perché aveva paura di passare al dunque con me. Fatto sta che sotto l'effetto di quei baci e di quelle carezze avevo già raggiunto un livello di eccitazione che non avevo mai provato in vita mia: a un certo punto, si mise sopra di me e con delle spinte ben dosate, ora più veloci, ora più lente, a volte interrotte e sostituite da movimenti rotatori del bacino, che mi eccitavano ancora di più, mi fece raggiungere il piacere. Quando sentii di arrivare al culmine dell'eccitazione, inarcai istintivamente la mia schiena per riceverlo il più in profondità possibile e, all'unisono emettemmo lui un gemito, io un urlo che proprio non riuscii a trattenere. Seguì una serie di coccole reciproche e dolci parole sussurrate, dopo di che ricominciammo a fare l'amore: tra pause e riprese, riuscimmo a raggiungere il piacere entrambi altre due volte. Quando un raggio di sole entrò a illuminare la stanza, Stefano mi stava ancora carezzando i capelli e baciandomi le guance: "Questa stanza è esposta a Nord e il sole entra qui solo nel tardo pomeriggio di queste che sono le giornate più lunghe dell'anno" disse "praticamente abbiamo passato qui tutto il pomeriggio: non avrei mai immaginato una cosa simile con te. Ti amo: non ho mai amato nessun'altra come amo te, anche se non ho mai avuto il coraggio di dirlo." "Anch'io ti amo tantissimo, sono innamorata di te da quando ero una bambina. Ma forse questo nostro amore è destinato a non poter essere vissuto." Anche se in quel momento mi dispiaceva moltissimo dirglielo, perché sarei voluta rimanere per sempre vicina a lui, dovevo dargli la notizia della mia partenza: "Dopodomani partirò per Imperia: sono stata nominata Commissario e quella è la mia destinazione!" Sospirando, mi strinse a sè ancor di più e mi baciò per l'ultima volta sulla bocca: "Insomma: sedotto e abbandonato. Se non fossi così, Caterina, bisognerebbe inventarti. Ma è per questo che mi sei sempre piaciuta: in bocca al lupo!" "Come dicesti tu tanto tempo fa, ti farò avere il mio indirizzo. Il numero del cellulare già ce l'hai: sono sicura che ci sentiremo spesso."
L'ndomani lo passai al Distaccamento: di buon mattino passai in rassegna uno dopo l'altro tutti i box e salutai a modo mio ognuno di quegli splendidi animali. A volte in prossimità del box trovavo il conduttore e approfittavo dell'incontro per dire ad ognuno dei miei uomini delle parole di congedo e scambiare qualche battuta: avevamo vissuto parecchio tempo fianco a fianco e chiaramente tutti dicevano che mi avrebbero rimpianto. Quando finalmente giunsi al box di Furia, che mi guardava scodinzolando con la consueta eccitazione, lo aprii e feci scorrazzare quello stupendo essere per il campo di addestramento fino a che non ne potè più e, con la lingua ciondoloni, il respiro ansimante e la saliva che gli colava dalla bocca, venne ad acquattarsi accanto a me: gli elargii più coccole del solito e gli sussurrai nell' orecchio "Vecchio mio, dovremo separarci per qualche giorno, ma non ti preoccupare, mi raggiungerai presto nella nostra nuova sede. Non potrei mai fare a meno di te!".
Venne poi il momento di passare le consegne all'Ispettore Santinelli. "E' stato un piacere lavorare con te, Caterina, per tutto questo tempo. Peccato non mi abbia dato modo di approfondire un po' di più la nostra amicizia..." Lo fulminai immediatamente con lo sguardo, perché sapevo benissimo dove voleva andare a parare: abbassò immediatamente la cresta e riprese: "Beh, ti auguro buona fortuna. So che qualunque incarico ricoprirai, darai sicuramente il meglio di te stessa: sei una donna eccezionale e un ottimo poliziotto! Addio, anzi a presto, spero!" Ci scambiammo i classici baci di rito sulle guance, dopo di che mi ritirai nelle mie stanze per preparare i bagagli e sgomberare definitivamente il mio alloggio. A un certo punto riuscii a trattenere a stento una lacrima: stava finendo una fase importante della mia vita e ne stava per iniziare un'altra. "Nostalgia, rimpianto: via, via, tutti sentimenti che ho sempre gettato dietro le spalle" dissi a me stessa "Devo guardare sempre avanti: il passato è passato e il futuro è tutto avanti a noi, tutto da vivere, tutto da assaporare giorno dopo giorno".
"Nel ringraziarvi per aver scelto la compagnia Nuova Alitalia, si avvertono i Signori passeggeri che tra qualche minuto attereremo all'aeroporto Cristoforo Colombo di Genova. Sono le ore 9,30 del 30 Giugno 2009, la temperatura a terra è di circa 28 gradi, è previsto tempo sereno stabile con temperature in aumento e venti da Sud Est. Vi auguriamo una buona permanenza. Grazie e arrivederci su queste linee aeree."