sabato 21 agosto 2010

LA STREGA AURORA



LA STREGA AURORA





Quando gli Sherpa arrivarono all'ennesimo ponte sospeso, in uno stentato inglese, spiegarono alle due donne che li avevano assoldati a Kathmandu che non sarebbero mai andati oltre quel punto. A loro non era consentito sfidare spudoratamente le loro divinità, avevano troppa paura; nessuno di loro si era mai avventurato oltre quel ponte e chi, in passato, aveva osato farlo, non era mai più ritornato. Se le donne avessero voluto proseguire, lo avrebbero fatto a loro rischio e pericolo; avrebbero lasciato loro lo stretto indispensabile da portare in spalla dentro gli zaini, alcuni viveri, delle tavolette di cioccolato, un fornelletto da campeggio e la leggera tenda biposto a igloo. Loro sarebbero rimasti tre giorni, non di più, ad aspettarle. La giornata era splendida: l'aria rarefatta dei quasi 4.000 metri di quota faceva sembrare il cielo ancor più azzurro e le vette delle montagne più alte della Terra sfidavano, con le loro guglie innevate, lo stesso cielo limpido. Aurora e Larìs avevano sfilato le calde giacche a vento in Gore-Tex, che le avevano finora protette dalle improvvise bufere di neve, spesso incontrate durante quei cinque giorni di Trekking. Il loro scopo non era sicuramente quello di fare una vacanza estrema, ma quello di giungere al Tempio della Conoscenza e della Rigenerazione e incontrare il Grande Patriarca, per poter attingere al sapere universale conservato in quel tempio e diventare così adepte del livello più alto della Setta. Sapevano già che, da quel punto in avanti, avrebbero dovuto proseguire da sole, affidandosi al loro intuito e ai loro poteri: se avessero fallito, se avessero sbagliato strada, sarebbe stato estremamente improbabile che si fossero salvate, avrebbero trovato la morte tra quelle montagne. Aurora pagò il pattuito al capo Sherpa e gli disse che, se voleva, se ne poteva andare anche subito, ma il tipo dai lineamenti asiatici, che reggeva le redini di un lama, scosse la testa e ripeté: “Three days”. Scaldò un Tè forte per le due donne e le congedò, salutandole con la mano, mentre mettevano gli zaini in spalla e si avventuravano sul ponte sospeso su un abisso di almeno 800 metri di altezza. Larìs cercò con lo sguardo gli occhi azzurro-verdi di Aurora, che le trasmisero tutta la forza e l'energia di cui aveva bisogno: era poco tempo che la conosceva, ma si fidava ciecamente di lei e dei suoi poteri esoterici. Larìs Dracu era partita dalla Transilvania, una regione della Romania, che in quella fine degli anni '80 era ancora governata da un dittatore comunista: già a 18 anni si era fatta una fama di strega anticomunista e, per non cadere nelle mani della Polizia segreta del generale Ceausescu ed essere sicuramente uccisa, con non poche difficoltà aveva raggiunto l'Italia. Si era spinta fino a quel paesino della Liguria, dove aveva saputo vivesse un'adepta della sua stessa Setta, che l'avrebbe sicuramente aiutata e l'avrebbe anche guidata nel proseguire il suo cammino fino a farle raggiungere il livello più alto, quello oltre il settimo. Quando giunse alla casa di Aurora, il giorno dell'equinozio di primavera all'ora media, e vide che la sua ospite la stava aspettando sulla soglia di casa con la porta aperta, non rimase sorpresa, in quanto conosceva i poteri veggenti della maga. Aurora guardò con compiacimento quella bellissima ragazza, dai capelli neri lucidi, tirati indietro e raccolti in un corto codino, gli occhi scuri, quasi neri, i lineamenti del viso delicati, le linee sinuose del corpo che facevano immaginare, sotto i vestiti attillati, una perfezione di seni, glutei e gambe rari da vedersi. La maga era una sessantenne in ottima forma: i capelli biondi erano leggermente striati di bianco, gli occhi cangiavano di colore dall'azzurro al verde, a seconda della luminosità dell'ambiente, il suo corpo aveva ancora il vigore di una quarantenne e la sua pelle era tirata e non era solcata da rughe evidenti. Il suo sguardo era magnetico e quando gli occhi di Larìs incontrarono quelli di Aurora, la ragazza provò un forte impulso di desiderio sessuale nei confronti della maga. Aurora pronunciò delle parole in una lingua incomprensibile ai comuni mortali; non era la lingua occitana, tipica di quella zona di confine tra l'Italia e la Francia. La ragazza era in grado di capire quella lingua, per averla appresa da bambina, quando sua nonna la aveva iniziata alle pratiche magiche ed esoteriche: era il Semants, l'antica lingua degli adepti, la cui origine si perdeva nella notte dei tempi, una lingua conosciuta già ai tempi dell'Egitto dei Faraoni da maghi e Sciamani, ma che aveva origini anche più antiche. Aurora invitò Larìs ad entrare in casa e la guidò in un salone perfettamente quadrato: una delle pareti del salone era occupata interamente da una specchiera, per cui si aveva l'impressione che il salone fosse molto più ampio di quanto in realtà non era, mentre le altre tre pareti erano quasi completamente occupate da scaffalature, dove trovavano posto molti libri e manoscritti e alcuni vasi di porcellana, del tipo di quelli che si vedevano un tempo nelle farmacie e nelle erboristerie. Ma Larìs fu attirata soprattutto dal pavimento: in marmo lucidissimo di diversi colori, giallo, turchino, verde smeraldo, era stato realizzato il disegno di uno dei principali simboli esoterici, un pentacolo, una stella a cinque punte, inscritto in un cerchio, a sua volta perfettamente inscritto nel perimetro quadrato della stanza. Il simbolo dello spirito, una specie di asterisco, all'interno del pentagono formato dalle linee dalla cui unione prendeva origine la stella a cinque punte, indicava il centro esatto della stanza; in ognuno degli altri settori in cui il pavimento era diviso dalle linee e dagli archi di cerchio si potevano riconoscere varie figure, ognuna legata alla simbologia: la luna crescente e la luna calante, la luna piena, la congiunzione del sole con la luna nell'eclissi parziale e nell'eclissi totale, e altri ancora.
Larìs era allo stesso tempo affascinata e imbarazzata.
“Nella casa in cui sono vissuta, in Transilvania, c'era un salone identico a questo.” disse rivolgendosi ad Aurora nella stessa lingua in cui poco prima aveva parlato la maga. “La piastrella centrale indica il punto esatto in cui in passato è accaduto qualcosa di importante, qualcosa di infinitamente bello o di estremamente brutto. Mia nonna raccontava che, in quel punto esatto della mia dimora, tanti secoli or sono, un Principe sceso dai Monti Carpazi, in una notte di luna piena, aveva fatto l'amore con una bellissima fanciulla e da quell'accoppiamento era nata una bambina, che avrebbe dato origine alla nostra stirpe. Ma, a parte questo, so anche che, provocando l'abbassamento di quella piastrella, scatta un meccanismo che mette in evidenza una serratura nascosta dietro uno scaffale: mia nonna sfilava dal collo una catena d'oro in cui era infilata una chiave, anch'essa dorata, la infilava nella serratura e la specchiera si spostava e lasciava accesso a una stanza segreta, dove erano conservati libri, manoscritti, pergamene anche molto antiche, che le sue ave le avevano tramandato e che era il sapere a cui concedeva di avere accesso a coloro che aspiravano a divenire adepti del settimo livello.”
“Da come parli, e da quello che vedo con i miei poteri, so che tu hai già avuto accesso a quei documenti e possiedi, come me, i poteri del settimo livello, pertanto è inutile che apra a te la stanza segreta che si nasconde dietro lo specchio: insieme, invece, potremo affrontare il cammino che ci porterà al livello più alto, quello del sapere universale.”
Mentre parlava, Aurora aveva preso del tabacco da un prezioso contenitore di porcellana e lo aveva messo in due cartine, per arrotolarle con abilità a formare due sigarette: ne offrì una a Larìs, poi accese un fiammifero, avvicinando la fiamma prima alla sigaretta della giovane, poi alla sua. Aspirando un'ampia boccata di fumo, Larìs capì che al tabacco erano state mescolate sostanze stupefacenti ad eccitanti, ma lei era già abituata a fumare quel tipo di miscela: se non lo fosse stata, sarebbe caduta preda del volere della maga, come in un'ipnosi provocata contemporaneamente dalla droga e dai poteri occulti di Aurora. La droga stimolò invece in lei il desiderio sessuale, si avvicinò ad Aurora e si lasciò baciare e carezzare; spente le sigarette, le due si spogliarono e giacquero insieme sul nudo pavimento, fino a che Larìs raggiunse un violento orgasmo.
“Adesso che abbiamo unito i nostri corpi, uniremo le nostre menti e le nostre anime.” disse Aurora alla ragazza ancora ansimante per il piacere provato. “Oggi è un giorno particolare, unico, e dobbiamo sfruttare i nostri poteri uniti per evocare lo spirito di Artemisia, la mia ava bruciata sul rogo esattamente quattro secoli fa.”
Larìs seguiva incuriosita il suo discorso, mentre osservava che dalla finestra la luce che entrava stava diminuendo e già la luna piena era evidente nel cielo ancora azzurro del tardo pomeriggio.
“Il 21 marzo 1589, esattamente quattrocento anni fa, Artemisia fu legata al palo che era conficcato nel terreno proprio lì, dove ora vedi la piastrella pentagonale contrassegnata dal simbolo dello spirito, quella che indicavi prima. Oggi è l'equinozio di primavera, la luna piena fra qualche ora verrà oscurata dall'ombra della terra in un'eclissi totale: è una congiunzione astrale molto rara da verificarsi. Notte ideale per un Sabba, a cui noi però non parteciperemo. Tu sei arrivata qui proprio in queste ore, perché io da sola non avrei avuto la forza di fare quello che stiamo per fare.” Da uno scaffale prese un calice dorato, si tagliò accuratamente i biondi peli pubici, fino a rendere la zona genitale completamente glabra, e raccogliendoli dentro il calice; stessa cosa fece poi con i peli pubici di Larìs, molto più scuri dei suoi. Quindi prese da alcuni contenitori delle erbe essiccate, compresa un po' di quella miscela che avevano fumato in precedenza, e mescolò il tutto all'interno del calice, aggiungendo dell'olio; dopo di che, depose con cura il calice al di sopra della piastrella centrale. Poi preparò altre due sigarette, che avrebbero fumato, ancora completamente nude, per raggiungere un certo grado di oblio, quasi ad andare in trance. Intanto si era fatto buio e dalla finestra si vedeva lo splendente cerchio della luna, che lentamente veniva oscurato dall'ombra circolare della Terra proiettato su di lei dal sole, in quel raro momento magico di allineamento dei tre corpi celesti. Nel momento in cui la luna fu completamente oscurata e la sua posizione era evidenziata solo da un alone, le due donne, nude, sedute sul pavimento unirono le mani e i piedi a formare un cerchio intorno e sopra il calice. Aurora pronunciò una formula magica: “Has Sagadà , Artemisia”.
La finestra si spalancò, una saetta entrò nel salone e finì all'interno del calice incendiandone il contenuto: si levò un fumo grigiastro, dal cattivo odore di carne bruciata, che ricordava l'odore della strega messa al rogo quattro secoli prima. Il fumo si modellò e prese le sembianze di una donna, che volteggiando e danzando raggiunse Aurora e si fuse con lei. Adesso Aurora era Artemisia e Artemisia era Aurora. Larìs assisteva inerme a questo fenomeno. Quando l'ultimo filo di fumo scomparve assorbito dal corpo di Aurora e il contenuto del calice si fu dileguato completamente, le due donne caddero in un sonno profondo ed ebbero la visone di ciò che era accaduto quattrocento anni prima. Aurora viveva la visione in prima persona, nei panni di Artemisia, mentre Larìs la viveva come spettatrice, mescolata alla folla che assisteva al supplizio della strega.
Artemisia era legata al palo: sotto i suoi piedi erano state sistemate parecchie fascine, derivanti dalla potatura degli olivi, e poi dei ciocchi più grossi di legna resinosa di pino e di abete. Il tutto era stato anche cosparso abbondantemente di olio per lampade. Agli altri quattro pali, che erano stati disposti a semicerchio dietro il suo rispetto agli spettatori, erano state legate le sue quattro compagne: Viola, Emanuela, Alessandra e Teresa, quest'ultima detta il maschiaccio, in quanto era stata sorpresa più volte mentre giaceva con altre donne e gli Inquisitori avevano scoperto addirittura che era un ermafrodita, un essere in cui convivevano organi sessuali maschili e femminili, una donna dal clitoride talmente sviluppato da simulare un piccolo pene, capace anche di raggiungere l'erezione. Queste quattro donne non sarebbero state bruciate, anche se qualche fascina era stata deposta ai loro piedi: avevano confessato le loro colpe e avevano indicato Artemisia come loro “guida spirituale”, pertanto erano state legate ai pali come monito e per assistere da vicino al supplizio della loro ispiratrice. Come mai stava per aver luogo l'esecuzione, dal momento che il Doge di Genova aveva messo il veto agli Inquisitori della Chiesa, assicurando alle donne che non avrebbe permesso, in quei tempi moderni, una condanna ad una morte così atroce? Il Doge andava fiero del fatto che un suo concittadino avesse scoperto, neanche un secolo prima, una nuova terra, l'America, mettendo fine ufficialmente a quel periodo buio che era stato il Medioevo: non avrebbe pertanto mai permesso che la Chiesa, tramite l'Inquisizione, avesse fatto bruciare vive pubblicamente queste donne, anche se erano state giudicate colpevoli di stregoneria, eresia, commistione con il diavolo, delitti contro Dio, contro la Chiesa e contro gli uomini. Il tutto era cominciato un anno e mezzo prima, nell'autunno del 1587, quando il Podestà, Stefano Carrega, e il Parlamento locale avevano indicato le streghe abitanti alla Ca Botina come principali responsabili della grave carestia, che da qualche tempo si era abbattuta su tutta la zona, e avevano chiesto al Vescovo di Albenga di istituire un processo alle presunte streghe, affinché fosse messa fine alle loro malefatte con una punizione esemplare: la condanna al rogo. Erano giunti in paese due Inquisitori, due frati Domenicani vestiti di nero: uno era il Vicario del Vescovo e l'altro il Vicario dell'Inquisitore di Genova. I “corvi”, come li chiamava la gente del luogo, fecero arrestare le cinque streghe abitanti alla Ca Botina, le quali, sotto tortura, accusarono molte altre donne del paese, non solo di origini contadine, ma anche appartenenti alle famiglie più nobili. Ad un certo punto, gli Inquisitori erano arrivati ad arrestare circa duecento presunte streghe e il Consiglio degli Anziani, considerato anche che già due donne erano morte, una per le torture inflitte, un'altra caduta da una finestra in seguito a un tentativo di fuga, decise di rivolgersi al Doge di Genova, perché ponesse rapidamente fine al processo e facesse sì che venissero condannate le vere streghe, quelle della Ca Botina, il gruppo strettamente legato ad Artemisia, in tutto tredici donne e una fanciulla di 13 anni. Il governo genovese, quindi, non del tutto convinto della regolarità del processo a Triora, decise di interessarsene più da vicino. Passarono pertanto alcuni mesi, in cui mentre il Doge di Genova e il Vescovo di Albenga non trovavano un accordo su di chi fosse la competenza di procedere, le donne rimanevano in prigione alla mercé di carcerieri che non risparmiavano loro umiliazioni e abusavano di loro, anche sessualmente. Nel successivo mese di Maggio, giunse a Triora l'Inquisitore Capo, per visitare le donne in carcere ed accertarsi della situazione. Dopo averle di nuovo sottoposte alla tortura del fuoco, confermò le accuse per le tredici donne e lasciò libera la ragazzina; le donne furono processate, con le accuse di reato contro Dio, commercio con il demonio, omicidio di donne e bambini. Ad Agosto si giunse alla conclusione del processo, con la condanna a morte per Artemisia e le altre quattro donne più strettamente unite a lei: Emanuela Giauni, detta Emanuela la Capricciosa, Viola e Alessandra Stella e Teresa Borelli,detta Teresa il Maschiaccio, per la sua abitudine di portare i capelli corti, vestire abiti maschili e giacere con altre donne. Quando sembrava che ormai l'esecuzione della condanna, per impiccagione e incenerimento dei resti, delle cinque fosse imminente, intervenne il Padre Inquisitore di Genova, chiedendo che fosse rispettata la sua carica, fino a quel momento estromessa dal processo. Spettava a lui, infatti, in quanto rappresentante dell'Inquisizione di Roma, giudicare i crimini delle streghe. Così, le cinque condannate vennero trasportate a Imperia e da lì, a bordo di una nave, fino a Genova, dove furono rinchiuse nelle carceri governative, in quanto l'Inquisizione non aveva posto sufficiente, andando a far compagnia ad altre presunte streghe provenienti da altre cittadine della zona. Tutto sembrava andare per il meglio, in quanto il Doge aveva promesso che avrebbe fatto in modo, ora che erano sotto la sua protezione, di salvare loro la vita. Le avrebbe tenute in carcere per un periodo, poi, quando la gente si fosse cominciata a dimenticare di loro, le avrebbe rese libere, col patto di non fare ritorno al loro paese di origine. Ma il maligno, sotto le spoglie mortali del Podestà e del capo del Consiglio degli Anziani di Triora, ci mise lo zampino: fu facile corrompere i carcerieri con poche monete d'argento, sostituire le cinque streghe con altrettanti cadaveri di povere donne, morte per malattia o per gli stenti dovuti alla carestia che ancora imperversava tra i monti dell'alta Valle Argentina, e riportare le cinque streghe a Triora per un'esemplare esecuzione pubblica.
Legata al palo, Artemisia ripercorreva con la mente le principali tappe della sua vita, a partire dalla sua iniziazione, avvenuta quando era poco più che tredicenne, nel cerchio magico creato da sua mamma, sua nonna e altre adepte della Setta, nei pressi della Fonte della Noce, una fontana situata sotto un grande albero di noci. Già allora aveva percepito la forte presenza del Maligno, una forza negativa all'esterno del cerchio, che voleva le sue vittime per assimilarne i poteri e diventare impareggiabile nella sua malvagia potenza. Gli insegnamenti che gli avevano trasmesso la mamma e la nonna, l'acquisizione dei poteri della veggenza e dell'uso del tatto e della vista, per percepire e guarire i mali del corpo e dell'anima, erano stati da lei sempre utilizzati a fin di bene. Aveva imparato i poteri curativi di certe erbe, era in grado di fare pozioni che abbassavano la febbre, che toglievano i dolori, che aiutavano le donne partorienti, che non avevano doglie sufficienti, a far uscire il nascituro; aveva imparato ad usare, alle giuste dosi, spore di funghi velenosi, da applicare su ferite infette, in modo da far regredire le secrezioni purulente. Aveva anche capito come prevenire il vaiolo, prendendo delle croste da persone malate, stemperandole in una mistura di erbe particolari, inoculando poi la sostanza così ottenuta con l'aiuto di appositi aghi in uova di gallina contenenti un pulcino, e richiudendo il foro con della cera. Prima che le uova schiudessero, prelevava l'albume, che, deposto su una piccola ferita praticata sul braccio con un coltellino, dava origine ad una limitata lesione da vaiolo: il suo paziente, così trattato, non avrebbe contratto mai più la malattia. Aveva imparato a fare talismani, a recitare le formule magiche di rito, ad eseguire incantesimi di invisibilità, a formare i cerchi magici protettivi. Non aveva mai usato i suoi poteri per scopi malvagi, mai: eppure era stata additata come strega e, insieme alle sue quattro compagne più fidate, Emanuela, Viola, Alessandra e Teresa, era stata imprigionata e torturata con la corda, con il fuoco, con l'acqua. All'inizio dell'Estate era giunto nella sua cella il Podestà, Stefano Carrega: era lui che aveva iniziato la caccia alle streghe e, in quel momento, Artemisia capì che era lui che rappresentava il male, la grande minaccia che incombeva su di lei e sulle sue amiche. Già indebolita dalle torture, completamente nuda, fu legata mani e piedi al “cavalletto”, due pali di legno disposti a X, a croce di Sant'Andrea, cosicché avesse braccia e gambe divaricate. I carcerieri le rasarono i peli della zona genitale, poi la lasciarono sola con il Podestà: egli si avvicinò, sollevando la tunica e mostrando un grosso pene già in erezione. Non c'era possibilità per Artemisia, legata com'era, di sottrarsi alla violenza sessuale, ma sapeva che doveva essere forte, non doveva assolutamente cedere al piacere, altrimenti, con l'atto sessuale, lui le avrebbe sottratto tutti i suoi poteri e le sue conoscenze, assumendole su di sé. Riuscì vittoriosa: mentre sentiva il caldo eiaculato penetrare nelle sue viscere, dispose la sua mente ad essere il più lontano possibile da lì, a vagare per i boschi a lei cari, e il suo corpo a non provare neanche un fremito, neanche un sussulto. Il Podestà era furibondo.
“Peggio per te, strega: morirai sul rogo, tu e le tue compagne, e, mentre brucerete, la forza delle fiamme trasferirà su di me i vostri poteri.”
Il fatto di aver vinto quella battaglia le aveva dato un barlume di speranza e quando, nonostante la condanna degli Inquisitori, lei e le sue quattro compagne vennero trasferite a Genova, pensò che il pericolo si stesse allontanando. Certo era che, dopo il rapporto col Podestà, non le era più venuto il ciclo mestruale: portava in grembo un figlio, o meglio, come poteva percepire, una figlia. Si rifiutava di pensare che fosse figlia del maligno: pensava che l'avrebbe comunque inizializzata alle pratiche magiche ed esoteriche, proprio come era stato fatto con lei da sua madre e da sua nonna, e che, anzi, quella figlia avrebbe avuto dei poteri soprannaturali veramente forti, in grado di contrastare qualsiasi potenza maligna e portare avanti nel bene la sua stirpe. Ma, dopo qualche mese, il maligno aveva ripreso in pieno le sue forze: si era alleato con il Consiglio degli anziani e aveva inviato a Genova degli uomini incappucciati per riportare lei e le sue quattro compagne a Triora, dove sarebbero state giustiziate. A Marzo Artemisia era quasi al termine della gravidanza: quando giunse a Triora, il capo del Consiglio degli anziani, Giulio Scribani, volle accertarsi personalmente del suo stato, in quanto non poteva permettere che, insieme alla strega, fosse bruciata sul rogo una creatura innocente. Artemisia usò tutti i suoi poteri per penetrare nella sua mente: si sarebbe sacrificata sul rogo, purché il suo sacrificio fosse servito a salvare sua figlia e le sue compagne. Il Podestà già aveva fatto allestire i cinque roghi e già pregustava lo spettacolo di quella sera, in cui, per una rara congiunzione astrale, in quel giorno di equinozio di primavera, giorno di plenilunio, si sarebbe verificata un'eclissi totale della luna. Ma Giulio impose il suo volere.
“Non voglio assistere a una barbara strage. Ho mandato una levatrice da Artemisia: conosce i sistemi per procurarle un parto anticipato. Il neonato sarà affidato a una nutrice. Solo Artemisia, che è la più potente delle streghe, sarà bruciata. Le altre, legate ai loro pali, assisteranno alla sua esecuzione e poi saranno marcate in modo tale che ognuno che le incontri le riconosca come streghe e le eviti: ognuna ha già uno strano tatuaggio sulla gamba destra, nella parte interna del polpaccio, che raffigura tre tomi, tre libri, e che rappresentano i libri che hanno consultato e che hanno studiato per diventare adepte della loro setta. Faremo completare quel tatuaggio con delle fiamme che avvolgano i libri: lo stesso tatuaggio sarà fatto ad ogni primogenito femmina nella discendenza di queste streghe!”
Il Podestà lanciò lampi di odio nei confronti dell'anziano, ma non poteva contraddirlo: bene, almeno la parte dei poteri di Artemisia la avrebbe potuta assumere. Ma Artemisia, legata al palo, in attesa che le fiamme fossero appiccate alla sua catasta, rimaneva concentrata e formava una barriera protettiva nei confronti delle sue amiche, che erano in contatto telepatico con lei, e la posizione a semicerchio degli altri patiboli dietro il suo favoriva la protezione. Così, quando dalla folla degli spettatori si levarono grida - “Non le risparmiate, bruciatele tutte!” - e un uomo, con una torcia accesa in mano, riuscì a scavalcare la barriera delle guardie e avvicinare pericolosamente la fiamma al rogo di Teresa, questo non si incendiò e due guardie presero sottobraccio l'uomo e lo rispedirono in mezzo al pubblico con un calcio sul sedere. L'uomo rotolò a terra e si fermò proprio ai piedi di Larìs, che gli lanciò uno sguardo di disapprovazione. Pochi istanti dopo, il boia prese una torcia da un braciere, prima la sollevò in alto per mostrare a tutti le fiamme, dopo di che la avvicinò alla catasta di legna disposta ai piedi di Artemisia, che si incendiò immediatamente. Artemisia, prima che le fiamme cominciassero ad avvolgere il proprio corpo, rivolse lo sguardo alla luna, che in quel momento era completamente oscurata dal fenomeno dell'eclissi e percepibile solo come una sfera scura circondata da un alone argentato, e lasciò andare il suo spirito. Doveva assolutamente evitare che i suoi poteri e la sua sapienza si trasferissero a Carrega, indirizzandoli invece, con l'aiuto telepatico delle compagne, alle quali il suo sacrificio aveva salvato la vita, verso la sua bambina, che aveva da poche ore partorito e che si sarebbe chiamata Aurora, come la luce del primo mattino che precede l'alba. In breve, le fiamme ebbero ragione del corpo di Artemisia e lo avvolsero: la donna si trasformò in torcia umana, i capelli bruciarono, i vestiti si incenerirono, lasciando scoperta la carne, che diventò prima rossa, poi nera. La sagoma di Artemisia, che ancora si contorceva, era ormai solo intuibile in mezzo al muro di fuoco, che ardeva rombante. Alla fine, il fumo e le fiamme penetrarono nei polmoni di Artemisia, che, con un ultimo prolungato grido di dolore, spirò.
Quando Aurora e Larìs ritornarono alla realtà erano ancora nude, distese sul freddo pavimento di marmo, ma nonostante ciò i loro corpi erano imperlati di sudore per la tensione dell'esperienza appena vissuta. Aurora, ancora stordita, prese un Kimono di seta, lo indossò e ne offrì uno simile alla ragazza, che era in preda ai brividi e fu ben felice di metterselo addosso; quindi andò in cucina a preparare una tisana rilassante, tornando dopo qualche minuto con due tazze fumanti, che spandevano un aroma di menta nel salone.
“Perché abbiamo avuto questa visione, che significato ha?” chiese Larìs, cominciando a riprendersi.
“Credo di aver capito che il maligno, che è rimasto quiescente per quattro secoli, stia riprendendo vigore e voglia sacrificare delle vittime per aumentare la sua forza e la sua potenza. Dobbiamo fare attenzione, perché quelle vittime potremmo essere io, tu, o le altre nostre sorelle, discendenti da coloro che quattrocento anni fa scamparono alla morte tra le fiamme.”
“Come possiamo prepararci ad affrontarlo? Abbiamo abbastanza forza per farlo?”
“Mia cara Larìs, tu ed io dovremo affrontare un lungo e periglioso viaggio fino al tempio dove vive il Grande Patriarca, che ci offrirà l'accesso al sapere universale, di cui Lui è custode. Ci sarà data la forza e la sapienza necessaria.”
Passo dopo passo, reggendosi alle corde laterali, erano giunte circa a metà di quel ponte che oscillava pericolosamente a ogni loro movimento; una folata di vento più forte fece gelare letteralmente il cuore di Larìs, che cercò di nuovo gli occhi di Aurora, per sentirsi rassicurata. Con cautela, le due sfilarono gli zaini dalle spalle, indossarono le giacche a vento e proseguirono fin quasi a raggiungere la radura erbosa al di là del ponte. Da lì partivano almeno cinque sentieri, che si dirigevano in direzioni diverse: quale poteva essere quello giusto da seguire? Aurora vide due rami incrociati con della terra smossa intorno; cercò un lungo ramo e, facendo attenzione a non andare a calpestare la terra smossa, distrusse la croce, con lo stesso ramo disegnò poi un cerchio in terra, recitando delle parole, che Larìs riconobbe come quelle di un contro incantesimo. Era chiaro che qualcuno aveva fatto un sortilegio per metterle in difficoltà sul cammino da seguire: ma Aurora aveva molta esperienza in fatto di sortilegi e incantesimi. Completato il cerchio e rivolte le parole verso il cielo, immediatamente fu evidente che dalla radura partiva un solo sentiero ed era quello che dovevano seguire: attraversata la lingua di un ghiacciaio, il sentiero cominciò a discendere, fino a che le praterie d'altura lasciarono il posto ad un bosco, che si faceva via via sempre più fitto man mano che si scendeva. Ad ogni bivio, ad ogni biforcazione del sentiero, le due, d'istinto, sapevano quale direzione seguire: il bosco offriva frutti e bacche mangerecci e ogni tanto trovavano una fonte d'acqua fresca, per cui, anche se i viveri di scorta cominciavano a scarseggiare, non c'era modo di dover soffrire la fame o la sete. Anche le temperature si erano fatte più gradevoli e non c'era più bisogno delle giacche a vento; al quinto giorno di cammino, uscendo dal fitto bosco si ritrovarono in una vallata meravigliosa, in fondo alla quale videro la loro meta. Il tempio era una costruzione antichissima, doveva avere millenni, ma essendo in una zona così inaccessibile ai comuni mortali, essendo solidamente costruito sulla roccia e non essendosi mai verificati eventi sismici in quel luogo, si era mantenuto intatto nel corso dei secoli e dei millenni. Ma quello che destò immediatamente lo stupore delle due donne fu la centrale idroelettrica che si intravedeva sul retro del tempio: una cascata, che con forza cadeva da una parete a strapiombo della montagna, da un'altezza di diverse centinaia di metri, alimentava delle turbine, che fornivano energia elettrica all'antico edificio. Accanto alle turbine, una serie di pannelli solari provvedevano a fornire probabilmente acqua calda e, forse, contribuivano anch'essi in parte a generare energia elettrica. Un antesignano impianto fotovoltaico, probabilmente non ancora in funzione, completava la centralina, che rendeva quell'oasi completamente autonoma dal punto di vista energetico.
Giunte all'ingresso del tempio, due uomini dall'aspetto fisico incredibilmente perfetto, le accolsero.
“Siate benvenute al tempio della Conoscenza e della Rigenerazione. Il Grande Patriarca vi sta aspettando e, appena possibile, vi riceverà. Nel frattempo saremo le vostre guide, vi condurremo ai vostri alloggi e faremo in modo di rendere piacevole la vostra visita in questo incantevole luogo. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, chiedete e cercheremo di accontentarvi. Io sono Ero e il mio compagno è Dusai.”
I due uomini, vestiti solo con una corta tunica colorata, erano alti e possenti, i muscoli evidenti sembravano scolpiti come quelli delle antiche statue Greche, tanto erano perfetti. Ero aveva capelli biondi, ricci, piuttosto lunghi, carnagione chiara, anche se lievemente abbronzata, e occhi azzurri del colore del cielo; Dusai era moro, aveva capelli neri corti, occhi scuri e la carnagione del colore dell'ebano. Mentre Dusai si prendeva cura di Aurora, Ero si inchinò avanti a Larìs e prese cortesemente il suo bagaglio: i quattro, attraversato un cortile perfettamente quadrato, si addentrarono nell'edificio e camminarono lungo corridoi finemente decorati, ora con scene di caccia, ora con scene di guerra, ora con scene di accoppiamento tra animali. Arrivarono, alla fine, ad un chiostro, al centro del quale c'era una piscina, mentre sotto i portici si aprivano le porte delle stanze degli ospiti. Qui le decorazioni rappresentavano accoppiamenti tra uomini e donne, in tutte le posizioni possibili e immaginabili tratte dai più impensabili manuali di Kamasutra.