venerdì 12 novembre 2010

UNA NUOVA INDAGINE PER IL COMMISSARIO CATERINA RUGGERI

I MISTERI DI VILLA BRANDI
Quel caldo fine settimana di Agosto era passato troppo velocemente e la mattina del 17 mi ritrovavo di nuovo sul volo Ancona – Genova per rientrare nella mia sede di lavoro, ancora una volta immersa nei miei pensieri. Era stato bello passare due giorni interi con Stefano, a far progetti per il futuro, a parlare di noi e del figlio che avremmo avuto e a scambiarci coccole reciproche. Il mio compagno, in quel breve lasso di tempo che io avevo passato in Liguria, aveva completamente cambiato stile di vita, e non parlo solo della passione per la musica. Aveva abbandonato la sua stanza all'interno della clinica, per trasferirsi in una cascina a pochi chilometri da lì: era un luogo stupendo, immerso nel verde delle colline marchigiane. La casa era accogliente e arredata con gusto, in perfetto stile rustico. Un caminetto, che troneggiava nel soggiorno, avrebbe riscaldato le fredde serate invernali. Attraverso un ampio cortile, ideale per trascorrere all'aperto giornate e serate estive, si giungeva alle scuderie, dove già erano ricoverati due cavalli, un maschio castrato e una giumenta di razza Sella Italiano, e un Pony. Poi c'erano dei box per i cani, due dei quali già occupati da un Alano e da un Setter Gordon. La cascina confinava con un boschetto sul lato posteriore e con dei campi coltivati sugli altri lati.
“Questo luogo è bellissimo.” Dissi a Stefano, mentre eravamo nel cortile a goderci uno stupendo tramonto. “Peccato che non me lo potrò godere a lungo insieme a te!”
“Oh, non è detta l'ultima parola. Grazie alla tua gravidanza, potresti chiedere un avvicinamento. E comunque, dal momento in cui andrai in congedo per maternità, verrai qui e non ti permetterò di allontanarti in alcun modo fino a che nostro figlio non sarà bello cresciuto. I due cavalli li monteremo noi, ma il Pony è riservato al piccolo...”
“O piccola! Perché parlare esclusivamente al maschile?”
Sorridendo e scherzando, Stefano mi prese per mano, mi condusse di corsa verso la scuderia, sciolse i cavalli, senza neanche sellarli, e mi invitò a saltare sopra la giumenta, mentre lui montava sul maschio castrato. I cavalli erano docili ed era facile cavalcarli anche senza sella e finimenti. Tutto ciò mi ricordava i tempi quando, da ragazzina, spesso facevo a gara con Stefano per saltare in groppa al miglior cavallo che c'era nella scuderia di suo padre, spronandolo per sentieri e strade sterrate aggrappata alla criniera del malcapitato animale. Bei tempi! Certo, mi sarebbe piaciuto immensamente vivere la mia vita lì con lui, ma come avrei potuto fare con il lavoro? Anche quello mi piaceva moltissimo e non l'avrei cambiato per nulla al mondo.
Il fine settimana era passato troppo velocemente e quella mattima Stefano mi aveva accompagnato all'aeroporto, restandomi vicino fino al momento dell'imbarco. Il momento di salutarsi fu veramente duro, ma il dovere mi chiamava e salii, un po' a malincuore, sull'aereo. Ora che era prossimo l'atterraggio, le emozioni stavano lasciando il posto alla voglia di rientrare al lavoro. Tutto sommato, ad Imperia mi trovavo veramente bene e con i colleghi c'era veramente una grandissima intesa. Mi ero accorta che il Distretto era un po' come una grande famiglia ed io mi sentivo ormai un buon capo, accettato da tutti non perché imponevo la mia volontà, ma perché avevo la capacità di coordinare quello stupendo gruppo di volenterosi poliziotti, dimostrando di fare la mia parte quando ce n'era bisogno. Certo era che, a parte l'indagine sui delitti di Triora, i luoghi erano piuttosto tranquilli. Certo, episodi di microcriminalità non macavano e, considerando il fatto che i Distretti di Polizia sono cronicamente sotto organico, tutti noi eravamo costretti a fare turni di lavoro prolungati per coprire il servizio in maniera adeguata. Ero stata felice che l'Ispettore Giampieri, messo davanti alla scelta se rimanere al Distretto o ritornare a lavorare accanto al Questore, avesse senza dubbio scelto la prima opzione. Mi ero ormai molto affezionata a lui: era il mio vice, lo consideravo il mio alter ego esarebbe stato difficile per me doverne fare a meno, anche in considerazione della profonda intesa che si era fin da subito stabilita fra noi due.
Nella sala arrivi dell'aeroporto di Genova non trovai stavolta né lui, né altri ad aspettarmi. Ritirari il mio bagaglio e raggiunsi Imperia in Taxi.
Quando misi piede dentro il Distretto, mi resi conto che c'era un insolito trambusto. Durante la notte, al porto c'era stata una rissa tra immigrati stranieri e i colleghi avevano provveduto ad arrestare alcune persone di colore, che stavano facendo un baccano insopportabile. Chiesi spiegazioni a D'Aloia.
“Erano quasi tutti ubriachi, Dottoressa. Hanno iniziato a litigare credo per motivi legati alla loro religione e, quando la discussione è degenerata, hanno iniziato a tirarsi le bottiglie vuote della birra. Qualcuno le ha ricevute in testa ed è stato medicato al Pronto Soccorso. Ora li prendo a verbale, controllo i loro permessi di soggiorno e li butto fuori da qui nel più breve tempo possibile.”
“Auguri, D'Aloia! Non la vedo un'impresa semplice.”
Alle sei del pomeriggio, quando uscii dalla mia stanza, D'Aloia era infatti ancora alle prese con alcuni di loro, che nonostante il permesso di soggiorno non in regola, affermavano di lavorare, chiaramente in nero, per alcune imprese edili.
“Dottoressa, non so più che pesci pigliare. Dovrei far loro il foglio di via, ma mi fanno pena!”
“Una soluzione ci sarebbe: denunciano chi li fa lavorare in nero e noi gli forniamo un permesso di soggiorno provvisorio per un massimo di tre mesi.” Sorrisi a D'Aloia, perché sapevo benissimo che nessuno di loro avrebbe avuto il coraggio di sporgere denuncia, mettendo magari in difficoltà altri loro amici o parenti che lavoravano per le stesse imprese, e uscii dal distretto per avviarmi verso casa.
Stavo per fermare un Taxi, quando alle mie spalle comparve Mauro.
“Ho la mia auto e per oggi ho terminato. Io vado verso Ventimiglia per incontrare Anna: credo che una deviazione per accompagnarti a casa non mi farà fare troppo tardi.”
Accettai di buon grado il passaggio e, nel giro di un quarto d'ora, giunsi finalmente a casa. Clara era in giardino a giocare con Furia e notai che il saluto che fece al mio collega era di grande intesa fra loro; sul momento non badai molto alla cosa, in fin dei conti avevamo trascorso parecchio tempo tutti insieme in quell'ultimo periodo. E poi avevo altre cose per la testa.
Una delle priorità che dovetti affrontare nei giorni successivi fu quella di rivolgermi ad un ginecologo che mi seguisse durante la gravidanza. Laura mi consigliò una giovane dottoressa che lavorava nel reparto di Ostetricia dell'Ospedale di Imperia.
“La Dottoressa Valeri è sempre disponibile e molto alla mano. Qui ad Imperia il reparto è molto ben attrezzato e si preferisce addirittura farsi seguire nella struttura pubblica piuttosto che in ambulatori privati esterni. Vedrà che si troverà molto bene.”
Effettivamente il consiglio di Laura fu ottimo e, dopo qualche giorno, uscii dallo studio della ginecologa con in mano le prime immagini ecografiche della creatura che portavo in grembo e la lista di una serie infinita di esami di laboratorio da eseguire. Il sesso del feto non era ancora sicuro, ma la Dottoressa si era sbilanciata.
“All'ottanta per cento femmina, ma non ci giurerei ancora.”
La successiva ecografia, dopo circa un mese, avrebbe confermato che era una femmina e, in cuor mio, avrei deciso che si sarebbe chiamata Aurora.
Il mio stato di gravidanza non mi dava alcun disturbo e riuscivo tranquillamente a portare avanti tutti i miei impegni, sia lavorativi che extra. Andando ormai verso l'autunno, per mantenermi in forma, avevo iniziato a frequentare una palestra, dove l'istruttore mi aveva proposto un piano personalizzato, adeguato anche al fatto che ero incinta.
A metà Ottobre, a tempo di record, era stato completato il restauro di casa Della Rosa, che era pronta ad accogliere Clara come Direttrice della Fondazione Studi Esoterici di Triora. Avevo supportato Clara in quei mesi e l'avevo aiutata a sviluppare le sue idee; la ragazza era veramente in gamba ed aveva un'intelligenza e una sapienza notevole. Credo che ascoltasse i miei consigli più per cortesia che perché ne avesse bisogno. Già conosceva bene i testi e i manoscritti presenti all'interno dell'abitazione della strega, per averli a suo tempo catalogati e sistemati, anche se molto materiale si era poi perso nell'incendio della dimora: il salone del pentacolo sarebbe divenuto un centro studi aperto a tutti coloro che avessero desiderato arricchire il loro bagaglio culturale in materia di magie ed esoterismo, chiaramente sotto la guida vigile della direttrice e bibliotecaria Clara. Mauro era sempre più presente ad aiutare la nostra amica, soprattutto nei lavori pesanti, tipo sistemazione di scaffalature, disposizione di suppellettili d'arredo e via dicendo. La parte più delicata, quella di adattare i passaggi segreti e i cunicoli sotterranei ad una visita turistica guidata, fu diretta praticamente da Mauro, che sembrava quasi un vero esperto della Sovrintendenza alle Belle Arti. Quello che più mi meravigliava, e un po' mi preoccupava, era che invece vedevo sempre meno Anna accanto a Mauro. Cominciavo già a sospettare qualcosa, quando un giorno sorpresi Mauro e Clara scambiarsi tenere effusioni. Colto alla sprovvista dalla mia inaspettata presenza, Mauro farfugliò qualcosa.
“Tranquilla: Anna sa tutto da qualche giorno. Ci siamo lasciati da buoni amici.”
Certo, si dice sempre così, ma poi bisogna vedere come sta realmente la persona che ha subito l'abbandono e che, di solito, prova dentro di sé un vuoto incolmabile, anche se cerca di far finta di niente e non far pesare la cosa all'altro. Così telefonai ad Anna e capii che effettivamente stava da schifo.
“So che non me la dovrei prendere così, Caterina: Mauro ed io abbiamo sempre vissuto il nostro rapporto in piena libertà e ho sempre ritenuto che fosse normalissimo che potesse finire da un momento all'altro. Ma ora ci sto male. Non ce l'ho né con lui, né con Clara, sia chiaro, ma Mauro mi manca molto.”
Decidemmo di andare a cena insieme e mi ci volle del bello e del buono per consolarla e per cercare di portare il discorso su altri argomenti. Terminata la cena in una trattoria di Sanremo, decidemmo di dedicarci allo svago totale, sconfinando nel principato di Monaco e andando a passare la nottata al casinò di Montecarlo. Rientrai a casa all'alba, ma quella fu l'ultima follia che mi concessi, dal momento che l'aumento di circonferenza del mio girovita mi suggeriva di iniziare una fase della mia vita che fosse più tranquilla e regolata.
A Novembre Clara e Mauro si trasferirono in via definitiva nell'ex casa Della Rosa ed io rimasi da sola a condividere con Furia il casolare nella bassa Valle Argentina. L'inaugurazione del Centro Studi, alla presenza di importanti autorità, a metà del mese di Novembre, fu una bellissima festa. Casa Della Rosa risplendeva di nuova vita: il salone del pentacolo, restaurato, era meraviglioso e, fortunatamente, l'incendio non aveva minimamente rovinato il marmo del pavimento che, lucidato, era spettacolare. La specchiera era stata lasciata aperta, perché fosse visibile la biblioteca ricca di antichi testi e manoscritti. Un lungo tavolo era stato disposto nel salone, a disposizione degli studiosi che avessero voluto consultare i testi, che venivano dispensati attraverso una scrivania disposta in corrispondenza del passaggio dal salone alla biblioteca, un tempo delimitato dalla specchiera scorrevole. Quest'ultima era ancora funzionante, ma il complicato meccanismo d'apertura era stato sostituito da un comodo telecomando. Il lungo tavolo nel salone era in quel momento imbandito per il rinfresco e, dopo i discorsi del Sindaco, di un Sottosegretario del Ministero dei Beni Culturali, del Dottor Leone e della Dottoressa Honoris Causa Clara Giauni, una ditta di catering vi riversò sopra ogni ben di dio.
Quando, uno dopo l'altro, tutti gli illustri ospiti se ne furono andati, rimasi finalmente sola con Clara e Mauro. Ero veramente contenta di aver potuto aiutare quella ragazza: non solo le avevo salvato la vita, ma adesso aveva un futuro davanti a sé, e non era poco. E aveva trovato anche un ottimo compagno, anche se a scapito di un'altra. Lupus in fabula, Anna fece capolino dalla porta d'ingresso:
“Sono venuta a farti i miei più sinceri complimenti, Clara: è tutto meraviglioso e te lo sei ampiamente meritato.”
Baciò sia Clara che Mauro affettuosamente, e notai che non c'era assolutamente ombra di rancore nei suoi gesti, che erano chiaramente sinceri. Meno male, mi dissi, la bufera era sicuramente passata.
“Beh, ragazzi, auguro ogni bene a tutti voi. Purtroppo fra qualche giorno vi lascerò. Ho già pronta la richiesta di congedo per maternità e credo proprio che l'ultima fase della gravidanza la passerò nelle Marche vicino al mio compagno. Ma, anche se non ci vedremo, sicuramente ci terremo in contatto!”
Sia Mauro, che Clara, che Anna mi assicurarono che non sarebbe passato giorno in cui non ci saremmo contattati per telefono, magari con un semplice SMS. Quella sera tornai a casa felice, piena di quel calore umano che raramente in vita mia avevo provato. Sarebbe stata dura andarsene da quei luoghi, meravigliosi sotto tanti aspetti. Ero convinta che comunque dopo alcuni mesi sarei ritornata lì, non sapendo ancora che cosa la vita e il destino mi stavano riservando.
Quando entrai nella stanza del Dottor Perugini con in mano la busta contenente la mia richiesta di congedo, vidi che il Questore teneva a sua volta in mano una grossa busta con sopra scritto in stampatello il mio nome a caratteri cubitali.
“Sapevo che i suoi contatti con le streghe di Triora l'avevano dotata di poteri soprannaturali, ma questa è telepatia pura, mia cara Dottoressa: stavo giusto per convocarla!”
“Bene. Prima Lei o prima io?” dissi, gettando lo sguardo dalla mia busta alla sua in maniera intermittente.
“Credo che dopo che avrà letto il contenuto di questa, non ci sarà più alcun bisogno che Lei presenti più niente a me, richieste di ferie, congedi o altro...” disse, porgendomi la busta sigillata, ma di cui, a giudicare dal sorriso complice che aveva stampato sul viso, conosceva benissimo il contenuto.
Aprii il plico, che giungeva direttamente dal Ministero dell'Interno, e iniziai a scorrere velocemente con lo sguardo quanto c'era scritto.
“Viste le notevoli capacità investigative, nonché lo sprezzo del pericolo, l'abnegazione e l'attenzione nei confronti delle persone coinvolte nelle indagini... La Dottoressa Caterina Ruggeri, attualmente di stanza alla Questura di Imperia con il grado di Commissario, per decisione di questo Ministro, viene promossa Vice Questore Aggiunto e destinata alla Questura di Ancona, dove dovrà prendere servizio entro il 15 Dicembre p.v. Il Questore disporrà la sua sede di servizio, in base alle esigenze, tenendo conto delle ottime qualità della Dottoressa Ruggeri...”
Non riuscivo neanche a credere a quanto stessi leggendo: nel giro di un brevissimo lasso di tempo ero avanzata nella carriera in maniera inaspettata, direi incredibile. Lo stesso Ministro dell'Interno dispensava elogi nei miei confronti, e per di più, dopo solo pochi mesi trascorsi lontana dai miei luoghi di origine, potevo tornare a pieno titolo a lavorare vicino casa, e proprio in concomitanza con la mia maternità. Salutai cortesemente il Dottor Perugini, ringraziandolo per tutto quanto aveva fatto per me in quel breve periodo e uscii dalla Questura con la testa che mi scoppiava per i pensieri che turbinavano dentro di essa. Salii in auto e neanche mi accorsi della strada che avevo fatto per giungere a casa, talmente ero assorta nelle mie elucubrazioni mentali. Non c'erano decisioni da prendere, come era accaduto qualche mese prima: in quel momento le decisioni erano state già prese per me, e sicuramente non mi sarei potuta opporre. Eppure adoravo quei luoghi, anche se ci avevo vissuto per un brevissimo periodo, e non sopportavo l'idea di staccarmi, forse per sempre, dalle mie nuove amicizie. In vita mia non avevo mai avuto rapporti umani così intensi, di amicizia, di solidarietà, come quelli che avevo vissuto in quell'ultimo periodo: non avevo neanche il coraggio di dire addio a Mauro, o a Clara, o ad Anna, ma nenache a Laura, a D'Aloia e persino all'Ispettore Gramaglia o all'ultimo Agente che lavorava al Distretto. Ma, d'altra parte, sarei tornata nei miei amati luoghi d'origine, sarei stata vicina al mio amore, al padre della mia bambina: e, sicuramente, la piccola sarebbe potuta vivere in un clima familiare normale e avrebbe goduto della presenza di un affettuoso papà. Sapevo che il mio lavoro mi avrebbe tenuto parecchio fuori di casa, e che se mia figlia fosse dovuta crescere sola con me, avrei dovuto continuamente affidarla ad asili nido o baby sitter: in questo modo, invece, sarebbe stato tutto più semplice.
Rimanevano ben pochi giorni da passare in Liguria: l'inverno era ormai alle porte e il freddo, anche per la vicinanza delle montagne ormai già innevate sui cocuzzoli, cominciava a farsi sentire. Furia sempre più frequentemente cercava di entrare in casa per accucciarsi di fronte al caminetto acceso. Io, non senza una punta di malinconia, cominciavo a racimolare le mie cose, preparando alcuni scatoloni da caricare in auto assieme alle valige: chissà perché, mi chiesi, anche in poco tempo una persona è in grado di ammucchiare dentro casa una quantità incredibile di oggetti da cui non si vuol separare per nessun motivo. Ritrovai, tra le altre cose, il prezioso libro scritto in Ebraico con traduzione a fronte in Latino, che mi era rimasto fra le mani il giorno dell'incendio di casa Della Rosa. Lo avevo sempre tenuto come ricordo dell'indagine e dello scampato pericolo, ma in quel momento decisi che era giusto riconsegnarlo a Clara. Così colsi l'occasione per andarla a trovare e salutare lei e Mauro.
“Grazie, Caterina. Pensavo che questo libro fosse andato perduto per sempre tra le fiamme, e invece... Ma permettimi di regalarti una copia della Chiave di Salomone tradotta in Italiano. La potrai tenere come ricordo e potrai capire la potenza, la saggezza e i misteri che il testo nasconde. Sai solo tu come quella notte sei stata in grado di recitare a memoria l'invocazione che ti ha permesso di salvarmi la vita. E la recitasti in perfetto Ebraico.”
Visto che eravamo sole, in quanto Mauro era uscito a prendere della legna per il camino, le confessai ciò che credo già sapesse.
“E' stata Aurora ad inculcare le parole nella mia mente, ma di questo non ho fatto mai parola con nessuno. Credo che solo tu mi possa capire. Effettivamente, dopo aver avuto il rapporto con Aurora, io sono cambiata: ho delle percezioni che prima non mi sarei neanche sognata di avere. Se mi concentro, vedo l'aura delle persone, e possa anche intuire i pensieri di chi mi sta di fronte.”
“Sono poteri, mia cara Caterina, che ognuno di noi ha in maniera innata: c'è poi chi impara a farne uso e chi, tralasciandoli e non allenandosi ad usarli, è come non li avesse.”
“Comunque sia, ritengo che sia stata Aurora Della Rosa a favorire lo sviluppo in me di queste percezioni, nuove e fantastiche per me, e così ho deciso che mia figlia si chiamerà Aurora, in suo onore e in sua memoria, e anche perché mi sento in parte responsabile della sua morte, o quanto meno di non aver fatto abbastanza per evitarla.”
Vidi che, sentendo nominare la maga, gli occhi di Clara erano diventati lucidi.
“Tutto questo ti fa onore, Caterina. Sicuramente la tua bambina, indipendentemente dal nome che le darai, avrà una personalità eccezionale, e ce lo sapremo ridire: non credere che, per via della lontananza, non venga a conoscere tua figlia! Non sarà certo qualche centinaio di chilometri ad impedirmelo!”
Mauro era rientrato con una bracciata di legna, perfettamente tagliata a ciocchi, riversandola vicino al caminetto.
“Se le chiacchiere delle comari sono finite, gradirei salutare anch'io la mia collega, prima che parta irrimediabilmente per una remota regione del Centro Italia. Sicuramente la Polizia di Stato laggiù sraà ancora rimasta all'età della pietra!”
“Oh sicuramente laggiù una Lamborghini Gallardo in dotazione non ce l'hanno.” dissi, imitando il suo tono sarcastico. “Ma nulla mi vieterà di richiedere la tua specifica collaborazione, quando sarò invischiata in un'indagine particolarmente intricata.”
“Ah, per come te le tiri dietro tu... Non credo che tarderai molto a chiamarmi!”
Mi fermai a cena da loro e, tra una battuta e l'altra, un bicchiere di vino rosso, una grappa e un punch al mandarino, risalii in auto sicuramente con un tasso alcolemico superiore al consentito, ma felice di aver passato una serata tra veri amici.
Decisi di ritornare nelle Marche non in aereo, ma affrontando il lungo viaggio con la mia auto, così anche Furia avrebbe viaggiato con me.

sabato 4 settembre 2010

L'arresto di Larìs Dracu



Larìs tenta di fuggire a bordo della Porsche di Aurora, ma viene arrestata da Mauro e Caterina dopo un rocambolesco inseguimento.



Raggiunsi casa di Aurora e parcheggiai nel piazzale: la strega era sulla soglia, come se mi stesse aspettando. Fece uno sbuffo di fumo e gettò la cicca di sigaretta appena finita di fumare, poi mi fissò con quei suoi occhi incredibili, mentre mi avvicinavo verso di lei. “Benvenuta, mia cara: la speranza di incontrarti finalmente da sola non è stata vana! Vieni, Caterina!”
La sua voce era molto sensuale ed io ero profondamente attratta dal suo sguardo: mi prese dolcemente per mano e mi guidò all'interno della sua dimora fino al salone del pentacolo.
Sul pavimento aveva disposto dei cuscini colorati e su un tavolino c'erano due tazze di tisana fumante.
“Vedo distintamente la tua aura, rossa come il fuoco: tu sei passionale come l'elemento che ti rappresenta! Bevi, tesoro mio, poi avremo modo di conoscerci meglio.”
Probabilmente nella tisana c'erano delle spezie, degli aromi molto forti, forse anche droga, che mi fecero cominciare a far annebbiare la vista, a perdere la ragione e la cognizione normale delle cose e del tempo. La strega prese del tabacco da un prezioso vaso di porcellana e arrotolò con cura due sigarette: nonostante non avessi mai fumato in vita mia, portai la sigaretta che mi veniva offerta alle labbra e me la feci accendere. La prima boccata di fumo mi andò attraverso e la ributtai fuori immediatamente con un colpo di tosse, ma l'aroma era gradevole e cominciai ad aspirare ed esalare fumo fino a consumare tutta la sigaretta. A quel punto ero completamente sotto l'effetto delle droghe che la strega mi aveva somministrato: ero cosciente di quello che accadeva, ma non riuscivo a far niente per sottrarmi a ciò che stava facendo Aurora. La vidi spogliarsi, rimanere completamente nuda, poi cominciai a sentire le sue mani sul mio corpo: lentamente mi spogliò, continuando a carezzarmi, e mi fece adagiare delicatamente sui cuscini. Grazie anche all'effetto delle droghe, sentivo l'eccitazione crescere, il mio corpo vibrare: cominciai a mia volta a carezzare il corpo di Aurora, fino a che sentii le sue labbra unirsi alle mie, la sua lingua entrare nella mia bocca. Dopo avermi a lungo baciato, la sua bocca e la sua lingua cominciarono a scendere giù giù, a sfiorare e stimolare il mio collo, le mie spalle, i miei seni, facendomi eccitare sempre di più, fino ad arrivare alla zona genitale, per poi ritornare su su fino a sfiorarmi di nuovo le labbra. Ad un certo punto mi sentii penetrare: la sua lingua era entrata dentro di me, come un membro in erezione, e i suoi movimenti simulavano quelli di una vera e propria copula. Giunsi all'orgasmo, un orgasmo talmente forte, intenso, a dir poco violento, così diverso da quello dolcissimo provato con Stefano solo pochi giorni prima, che non potei fare a meno di sottolinearlo con un grido prolungato. Ero completamente stordita, ma sentivo ancora la calda lingua della strega all'interno del mio corpo, che con quell'unione stava trasmettendo qualcosa al mio interno, qualcosa che in quel momento non capivo, ma che dalla zona genitale arrivava direttamente alla mia mente, al mio cervello. Stremata, mi abbandonai sui cuscini e persi i sensi.
Quando iniziai a ritornare cosciente, la prima cosa che vidi fu la luna quasi piena, che splendeva in cielo sopra la mia testa. Non riuscivo a muovermi: pensai che ero probabilmente ancora sotto l'effetto delle droghe, ma non era così e solo dopo qualche istante mi resi conto della situazione di pericolo in cui mi trovavo in quel momento. Sicuramente ero legata e imbavagliata: cercai di guardare me stessa e intorno a me per rendermi conto di come quella strega mi avesse voluto combinare. Innanzitutto riconobbi il luogo: ero in prossimità della Fonte di Campomavùe. Non ero più nuda, ma direi neanche vestita; avevo indosso qualcosa di aderentissimo e trasparente, che mi resi conto essere dei collant. Un collant mi era stato fatto indossare normalmente alle gambe; ad un altro era stato praticato un foro al centro del corpino, che era stato fatto passare attraverso la mia testa, il corpino stesso tirato giù a ricoprire il mio tronco fino alla vita, le gambe del collant a rivestire le mie braccia, gli elastici dei due indumenti a toccarsi tra di loro all'altezza della vita. Le mie braccia erano legate in alto a due robusti pali infissi solidamente nel terreno, uno per lato rispetto al mio corpo, un altro collant era stato utilizzato per imbavagliarmi, e capivo che quest'ultimo mi procurava grosse difficoltà a respirare, in quanto in gran parte mi era stato inserito dentro la cavità orale. Sotto i miei piedi era stata disposta della legna da ardere, delle fascine e alcuni tronchi più grossi, a simulare un vero e proprio rogo: mi resi conto che di lì a poco avrei fatto la stessa fine riservata alle streghe nel medioevo. Un'altra cosa che percepivo era un notevole bruciore a livello della parte interna della mia gamba destra, a metà circa tra il ginocchio e la caviglia, ma, non potendo rivolgere il mio sguardo verso il basso, non riuscivo a capire di cosa si trattasse: pensai che, mentre ero incosciente, fossi stata ferita o scottata, ma non era quello il problema in quel momento. Quando capii che l'odore pungente che arrivava alle mie narici era odore di petrolio, vidi anche a qualche passo di distanza da me una figura vestita da boia, con una lunga veste nera, un cappuccio nero in testa con due buchi per gli occhi e una torcia accesa in mano. Pensai senza ombra di dubbio che sotto quella maschera ci fosse Aurora, che stava per uccidermi senza pietà: la vidi avvicinare la torcia al terreno, che si incendiò a formare un cerchio di fuoco, a breve distanza dalla catasta di legna che era sotto i miei piedi. L'oscura figura cominciò a gesticolare e recitare delle frasi in una lingua incomprensibile, con voce roca e falsata. Notai che quell'individuo aveva anche il controllo del fuoco: quando alzava le braccia, le fiamme si levavano più alte, mentre quando le abbassava anche le fiamme si abbassavano. Sperai che tutto ciò non fosse reale, che fosse un sogno provocato dalle droghe, o che fosse illusione dovuta ai poteri ipnotici della strega. Ma quando vidi il mio boia raccogliere da terra la torcia, ravvivarne la fiamma e fare il gesto di lanciarla verso il mio rogo per provocarne l'accensione, il mio cuore ebbe una stretta e pensai che per me fosse giunta la fine, una fine orribile. Mentre stavo raccomandando la mia anima al Padre Eterno, anche se non ero mai stata credente, intravidi, al di là del muro di fiamme, la mia salvezza spuntare dal nulla nelle vesti di Mauro Giampieri.
Mauro sorprese la nera figura incappucciata da dietro, la immobilizzò passandole un braccio intorno al collo e costringendola ad abbandonare la torcia. Il cerchio di fuoco, apparentemente non più controllato dalla volontà del boia, si abbassò fin quasi a spegnersi: vedevo i due lottare, impotente ad intervenire, fino a che l'oscura figura, lanciando due abili gomitate verso la bocca dello stomaco di Mauro, riuscì a liberarsi dalla stretta e scappare, dileguandosi all'interno del tunnel, la cui imboccatura avevamo liberato noi stessi il giorno precedente. Il mio collega, più che preoccuparsi di inseguire l'ipotetico assassino, si precipitò a liberare me: con il piccolo estintore della Lamborghini, che si era portato appresso, finì di spegnere il principio d'incendio, dopo di che venne a slegarmi.
“Non sai che piacere vederti!” gli dissi.
“Figurati per me, vederti in un look così sexy!” fu la sua risposta sarcastica. “Ma come ti sei combinata?”
“Come mi ha combinato quella dannata strega, direi! Mi ha ingannato, mi ha drogato ed ha tentato di uccidermi. Come diavolo hai fatto a lasciartela scappare? Sicuramente, attraverso quei passaggi sotterranei si starà dirigendo a casa sua. Ma lei è a piedi e noi abbiamo una potente auto: forza, cerchiamo di precederla e di catturarla su a Triora.”
Senza perdere la calma, Mauro finì di liberarmi, aiutandosi con un coltellino tascabile mi tolse quel collant infilatomi in maniera incredibile dalla testa e mi diede la sua camicia per coprirmi, rimanendo a torso nudo.
“Hai nessun indumento in auto da darmi?” chiesi.
“L'unica cosa utile è il giubbotto fosforescente d'emergenza: se poi non vuoi rimanere scalza ci sono gli stivali da pescatore che abbiamo utilizzato ieri, che sono rimasti nel baule dell'auto. Cercheremo di recuperare i tuoi vestiti a casa della strega. Andiamo!”
Raggiungemmo di corsa l'auto e, dopo che mi fui vestita in maniera veramente ridicola con gli indumenti proposti da Mauro., partimmo a razzo.
“Ma come hai fatto a giungere proprio al momento giusto?” chiesi a Mauro dopo essermi ripresa un po'.
“Un po' di fortuna, un po' d'intuito: quando ho visto che, dopo l'ora di pranzo, ancora non ti eri presentata al Distretto, ho cominciato a cercarti chiamandoti al palmare. Anche se sono pochi giorni che ti conosco, è come se ti conoscessi da una vita: ero sicuro che non saresti riuscita a stare con le mani in mano e che da sola ti saresti cacciata in qualche pasticcio. Non ottenendo risposta, ho cercato di localizzarti col sistema GPS. Ricordi? Hai due localizzatori, il palmare e il microchip. In un primo momento ho localizzato il tuo palmare e ho visto che era in prossimità della casa di Aurora, per cui mi sono mosso in quella direzione. Giunto lì, ho notato il SUV parcheggiato nel piazzale e ho immaginato che fosse l'auto, acquistata o presa a noleggio, con cui eri giunta fin lì. Quando notai che il palmare era rimasto sul sedile dell'auto, ho cercato di localizzarti attraverso il microchip: ho individuato la tua posizione e, mentre cercavo di raggiungerti, notavo che era troppo tempo che eri immobile, tanto che ho pensato al peggio. Avvicinandomi, ho visto il bagliore delle fiamme nella notte: ho preso l'estintore e mi sono precipitato. Il resto lo conosci. Piuttosto raccontami tu come hai fatto a farti fregare così.”
Stavo per rispondere, quando il bruciore alla gamba attirò di nuovo la mia attenzione: accesi la luce dell'abitacolo, mi sfilai lo stivale da pescatore ed osservai il punto da cui arrivava quella sgradevole sensazione.
“Il tatuaggio, quel tatuaggio, è stato fatto sulla mia gamba!” esclamai. “Io sono la quarta vittima? Come è possibile? Aurora prima ha detto che vedeva la mia aura rossa come il fuoco e mi ha associato a questo elemento, ma che senso ha? Non sono una discendente delle streghe di Triora!”
Improvvisamente dentro di me feci scorrere la storia della mia vita: mia madre, la morte del mio fratellino, il suicidio di mio padre. Mia madre era una strega, era lei che, con i suoi poteri occulti, aveva provocato tutte queste tragedie per eliminare i maschi della famiglia? E io, ignara primogenita femmina, nata nel 1971, coetanea delle altre vittime di Aurora, ero la discendente diretta di Emanuela Giauni? No, questo era ciò che mi aveva inculcato nella mente quella stregaccia con l'ipnosi. Tutto ciò che stavo pensando non aveva alcun senso, non potevo farmi suggestionare così.
“Stai tranquilla, riprenditi, ragiona!” disse Mauro interrompendo quelle mie riflessioni silenziose. “Ancora una volta Aurora, o chi per lei, sta cercando di farci credere ciò che non è, sta cercando di corrompere le nostre menti, per fuorviare le nostre indagini come ha fatto in passato con i nostri predecessori. So di un maresciallo dei Carabinieri che è finito in terapia psichiatrica dopo aver avuto a che fare con lei! E poi, sei sicura che la persona che stava per ucciderti fosse la nostra strega? Io ho avuto l'impressione che riuscisse a contrastare la mia forza in una maniera in cui una donna non riuscirebbe mai a farlo. Ancora ho gli addominali indolenziti dalle gomitate!”
“Non c'è da meravigliarsi di nulla da parte sua: magari si è addestrata alle arti marziali, o qualcosa del genere!”
Non riuscii a finire quest'ultima frase, che fui accecata dai fari di un'auto che a gran velocità procedeva nella direzione opposta alla nostra: sentii il rombo tipico di un motore sportivo quando sfrecciò a fianco della nostra auto.
“C...! E' lei: se ne sta scappando a bordo della Porsche. Ma come ha fatto a fare tutta quella strada a piedi in così poco tempo?” Mentre io stavo dicendo queste parole, Mauro aveva già fatto inversione di marcia e si era precipitato all'inseguimento dell'altra auto sportiva, giù per quella strada piena di curve insidiose e tornanti. Capii che per quel giorno non avevo finito di rischiare la vita: se non ero morta bruciata, sarei morta in un incidente stradale. Le gomme fischiavano ad ogni curva: fortunatamente nella notte non si vedevano i baratri, che comunque sapevo essere presenti ed incombenti ai lati della strada. In certi tratti Mauro riusciva a guadagnare terreno sulla Porsche, per poi perderne affrontando le curve, che l'altra auto sembrava riuscire ad affrontare più agevolmente. Fino a che il mio collega, in una manovra da brivido, tagliò un tornante attraversando un campo sconnesso e pieno di buche e si ritrovò davanti alla Porsche: cominciò a rallentare zigzagando fino a far finire l'auto della strega nel fosso laterale. Mi venne in mente che la mia pistola era sempre rimasta nel cassetto portaoggetti della Lamborghini: l'afferrai, tolsi la sicura e uscimmo entrambi dall'auto con le pistole spianate portandoci di fianco alla Porsche, uno per lato.
Gridai: “Aurora Della Rosa! Ti dichiaro in arresto!” Nessuna risposta: la donna era riversa sul volante.
Feci cenno a Mauro di aprire gli sportelli contemporaneamente: “Può essere una finta. Con attenzione: al mio tre apriamo le portiere. Uno...due...tre!” Con grande nostra sorpresa, la donna che aveva la testa sprofondata nell'airbag esploso era mora.
“E questa chi è?” dissi stupita.
“Si sta riprendendo!” disse Mauro “Ammanettiamola e chiamiamo rinforzi. Avremo tutto il tempo per interrogarla.”
Mauro prese il palmare e chiamò prima D'aloia e poi il Dr. Leone, per informarlo degli sviluppi dell'indagine e dell'arresto. Il magistrato chiese di parlare con me e il mio collega mi passò l'apparecchio: “Voglio essere presente all'interrogatorio, per cui mettete l'arrestata in camera di sicurezza per questa notte e domattina, anche se è domenica, sarò con voi!”
Mentre aspettavamo l'arrivo dei rinforzi e di un'ambulanza, la donna che avevamo intercettato era tornata in sé. Era una bellissima mora, dagli occhi scuri, più o meno della mia stessa età. Parlava bene in Italiano, anche se con uno spiccato accento straniero. “Chi sei, come ti chiami, perché stavi scappando?” le chiesi.
“Mi chiamo Larìs Dracu e sono di nazionalità Rumena. Risponderò alle vostre domande solo in presenza di un avvocato.” fu la sua unica risposta.
Nel giro di un quarto d'ora arrivò D'aloia, con una scorta di altri due uomini, seguito da un'ambulanza: i sanitari si occuparono della donna e dissero che l'avrebbero portata al pronto soccorso per accertamenti.
Ordinai al sovrintendente di non perdere di vista Larìs per un solo istante: “Se verrà ricoverata fa sì che sia piantonata da almeno due agenti! Voi seguite l'ambulanza: io e Mauro torniamo a casa Della Rosa a recuperare le mie cose, ma soprattutto a vedere se riusciamo a catturare la strega nella sua tana, anche se su questo non ho molte speranze.”

sabato 21 agosto 2010

LA STREGA AURORA



LA STREGA AURORA





Quando gli Sherpa arrivarono all'ennesimo ponte sospeso, in uno stentato inglese, spiegarono alle due donne che li avevano assoldati a Kathmandu che non sarebbero mai andati oltre quel punto. A loro non era consentito sfidare spudoratamente le loro divinità, avevano troppa paura; nessuno di loro si era mai avventurato oltre quel ponte e chi, in passato, aveva osato farlo, non era mai più ritornato. Se le donne avessero voluto proseguire, lo avrebbero fatto a loro rischio e pericolo; avrebbero lasciato loro lo stretto indispensabile da portare in spalla dentro gli zaini, alcuni viveri, delle tavolette di cioccolato, un fornelletto da campeggio e la leggera tenda biposto a igloo. Loro sarebbero rimasti tre giorni, non di più, ad aspettarle. La giornata era splendida: l'aria rarefatta dei quasi 4.000 metri di quota faceva sembrare il cielo ancor più azzurro e le vette delle montagne più alte della Terra sfidavano, con le loro guglie innevate, lo stesso cielo limpido. Aurora e Larìs avevano sfilato le calde giacche a vento in Gore-Tex, che le avevano finora protette dalle improvvise bufere di neve, spesso incontrate durante quei cinque giorni di Trekking. Il loro scopo non era sicuramente quello di fare una vacanza estrema, ma quello di giungere al Tempio della Conoscenza e della Rigenerazione e incontrare il Grande Patriarca, per poter attingere al sapere universale conservato in quel tempio e diventare così adepte del livello più alto della Setta. Sapevano già che, da quel punto in avanti, avrebbero dovuto proseguire da sole, affidandosi al loro intuito e ai loro poteri: se avessero fallito, se avessero sbagliato strada, sarebbe stato estremamente improbabile che si fossero salvate, avrebbero trovato la morte tra quelle montagne. Aurora pagò il pattuito al capo Sherpa e gli disse che, se voleva, se ne poteva andare anche subito, ma il tipo dai lineamenti asiatici, che reggeva le redini di un lama, scosse la testa e ripeté: “Three days”. Scaldò un Tè forte per le due donne e le congedò, salutandole con la mano, mentre mettevano gli zaini in spalla e si avventuravano sul ponte sospeso su un abisso di almeno 800 metri di altezza. Larìs cercò con lo sguardo gli occhi azzurro-verdi di Aurora, che le trasmisero tutta la forza e l'energia di cui aveva bisogno: era poco tempo che la conosceva, ma si fidava ciecamente di lei e dei suoi poteri esoterici. Larìs Dracu era partita dalla Transilvania, una regione della Romania, che in quella fine degli anni '80 era ancora governata da un dittatore comunista: già a 18 anni si era fatta una fama di strega anticomunista e, per non cadere nelle mani della Polizia segreta del generale Ceausescu ed essere sicuramente uccisa, con non poche difficoltà aveva raggiunto l'Italia. Si era spinta fino a quel paesino della Liguria, dove aveva saputo vivesse un'adepta della sua stessa Setta, che l'avrebbe sicuramente aiutata e l'avrebbe anche guidata nel proseguire il suo cammino fino a farle raggiungere il livello più alto, quello oltre il settimo. Quando giunse alla casa di Aurora, il giorno dell'equinozio di primavera all'ora media, e vide che la sua ospite la stava aspettando sulla soglia di casa con la porta aperta, non rimase sorpresa, in quanto conosceva i poteri veggenti della maga. Aurora guardò con compiacimento quella bellissima ragazza, dai capelli neri lucidi, tirati indietro e raccolti in un corto codino, gli occhi scuri, quasi neri, i lineamenti del viso delicati, le linee sinuose del corpo che facevano immaginare, sotto i vestiti attillati, una perfezione di seni, glutei e gambe rari da vedersi. La maga era una sessantenne in ottima forma: i capelli biondi erano leggermente striati di bianco, gli occhi cangiavano di colore dall'azzurro al verde, a seconda della luminosità dell'ambiente, il suo corpo aveva ancora il vigore di una quarantenne e la sua pelle era tirata e non era solcata da rughe evidenti. Il suo sguardo era magnetico e quando gli occhi di Larìs incontrarono quelli di Aurora, la ragazza provò un forte impulso di desiderio sessuale nei confronti della maga. Aurora pronunciò delle parole in una lingua incomprensibile ai comuni mortali; non era la lingua occitana, tipica di quella zona di confine tra l'Italia e la Francia. La ragazza era in grado di capire quella lingua, per averla appresa da bambina, quando sua nonna la aveva iniziata alle pratiche magiche ed esoteriche: era il Semants, l'antica lingua degli adepti, la cui origine si perdeva nella notte dei tempi, una lingua conosciuta già ai tempi dell'Egitto dei Faraoni da maghi e Sciamani, ma che aveva origini anche più antiche. Aurora invitò Larìs ad entrare in casa e la guidò in un salone perfettamente quadrato: una delle pareti del salone era occupata interamente da una specchiera, per cui si aveva l'impressione che il salone fosse molto più ampio di quanto in realtà non era, mentre le altre tre pareti erano quasi completamente occupate da scaffalature, dove trovavano posto molti libri e manoscritti e alcuni vasi di porcellana, del tipo di quelli che si vedevano un tempo nelle farmacie e nelle erboristerie. Ma Larìs fu attirata soprattutto dal pavimento: in marmo lucidissimo di diversi colori, giallo, turchino, verde smeraldo, era stato realizzato il disegno di uno dei principali simboli esoterici, un pentacolo, una stella a cinque punte, inscritto in un cerchio, a sua volta perfettamente inscritto nel perimetro quadrato della stanza. Il simbolo dello spirito, una specie di asterisco, all'interno del pentagono formato dalle linee dalla cui unione prendeva origine la stella a cinque punte, indicava il centro esatto della stanza; in ognuno degli altri settori in cui il pavimento era diviso dalle linee e dagli archi di cerchio si potevano riconoscere varie figure, ognuna legata alla simbologia: la luna crescente e la luna calante, la luna piena, la congiunzione del sole con la luna nell'eclissi parziale e nell'eclissi totale, e altri ancora.
Larìs era allo stesso tempo affascinata e imbarazzata.
“Nella casa in cui sono vissuta, in Transilvania, c'era un salone identico a questo.” disse rivolgendosi ad Aurora nella stessa lingua in cui poco prima aveva parlato la maga. “La piastrella centrale indica il punto esatto in cui in passato è accaduto qualcosa di importante, qualcosa di infinitamente bello o di estremamente brutto. Mia nonna raccontava che, in quel punto esatto della mia dimora, tanti secoli or sono, un Principe sceso dai Monti Carpazi, in una notte di luna piena, aveva fatto l'amore con una bellissima fanciulla e da quell'accoppiamento era nata una bambina, che avrebbe dato origine alla nostra stirpe. Ma, a parte questo, so anche che, provocando l'abbassamento di quella piastrella, scatta un meccanismo che mette in evidenza una serratura nascosta dietro uno scaffale: mia nonna sfilava dal collo una catena d'oro in cui era infilata una chiave, anch'essa dorata, la infilava nella serratura e la specchiera si spostava e lasciava accesso a una stanza segreta, dove erano conservati libri, manoscritti, pergamene anche molto antiche, che le sue ave le avevano tramandato e che era il sapere a cui concedeva di avere accesso a coloro che aspiravano a divenire adepti del settimo livello.”
“Da come parli, e da quello che vedo con i miei poteri, so che tu hai già avuto accesso a quei documenti e possiedi, come me, i poteri del settimo livello, pertanto è inutile che apra a te la stanza segreta che si nasconde dietro lo specchio: insieme, invece, potremo affrontare il cammino che ci porterà al livello più alto, quello del sapere universale.”
Mentre parlava, Aurora aveva preso del tabacco da un prezioso contenitore di porcellana e lo aveva messo in due cartine, per arrotolarle con abilità a formare due sigarette: ne offrì una a Larìs, poi accese un fiammifero, avvicinando la fiamma prima alla sigaretta della giovane, poi alla sua. Aspirando un'ampia boccata di fumo, Larìs capì che al tabacco erano state mescolate sostanze stupefacenti ad eccitanti, ma lei era già abituata a fumare quel tipo di miscela: se non lo fosse stata, sarebbe caduta preda del volere della maga, come in un'ipnosi provocata contemporaneamente dalla droga e dai poteri occulti di Aurora. La droga stimolò invece in lei il desiderio sessuale, si avvicinò ad Aurora e si lasciò baciare e carezzare; spente le sigarette, le due si spogliarono e giacquero insieme sul nudo pavimento, fino a che Larìs raggiunse un violento orgasmo.
“Adesso che abbiamo unito i nostri corpi, uniremo le nostre menti e le nostre anime.” disse Aurora alla ragazza ancora ansimante per il piacere provato. “Oggi è un giorno particolare, unico, e dobbiamo sfruttare i nostri poteri uniti per evocare lo spirito di Artemisia, la mia ava bruciata sul rogo esattamente quattro secoli fa.”
Larìs seguiva incuriosita il suo discorso, mentre osservava che dalla finestra la luce che entrava stava diminuendo e già la luna piena era evidente nel cielo ancora azzurro del tardo pomeriggio.
“Il 21 marzo 1589, esattamente quattrocento anni fa, Artemisia fu legata al palo che era conficcato nel terreno proprio lì, dove ora vedi la piastrella pentagonale contrassegnata dal simbolo dello spirito, quella che indicavi prima. Oggi è l'equinozio di primavera, la luna piena fra qualche ora verrà oscurata dall'ombra della terra in un'eclissi totale: è una congiunzione astrale molto rara da verificarsi. Notte ideale per un Sabba, a cui noi però non parteciperemo. Tu sei arrivata qui proprio in queste ore, perché io da sola non avrei avuto la forza di fare quello che stiamo per fare.” Da uno scaffale prese un calice dorato, si tagliò accuratamente i biondi peli pubici, fino a rendere la zona genitale completamente glabra, e raccogliendoli dentro il calice; stessa cosa fece poi con i peli pubici di Larìs, molto più scuri dei suoi. Quindi prese da alcuni contenitori delle erbe essiccate, compresa un po' di quella miscela che avevano fumato in precedenza, e mescolò il tutto all'interno del calice, aggiungendo dell'olio; dopo di che, depose con cura il calice al di sopra della piastrella centrale. Poi preparò altre due sigarette, che avrebbero fumato, ancora completamente nude, per raggiungere un certo grado di oblio, quasi ad andare in trance. Intanto si era fatto buio e dalla finestra si vedeva lo splendente cerchio della luna, che lentamente veniva oscurato dall'ombra circolare della Terra proiettato su di lei dal sole, in quel raro momento magico di allineamento dei tre corpi celesti. Nel momento in cui la luna fu completamente oscurata e la sua posizione era evidenziata solo da un alone, le due donne, nude, sedute sul pavimento unirono le mani e i piedi a formare un cerchio intorno e sopra il calice. Aurora pronunciò una formula magica: “Has Sagadà , Artemisia”.
La finestra si spalancò, una saetta entrò nel salone e finì all'interno del calice incendiandone il contenuto: si levò un fumo grigiastro, dal cattivo odore di carne bruciata, che ricordava l'odore della strega messa al rogo quattro secoli prima. Il fumo si modellò e prese le sembianze di una donna, che volteggiando e danzando raggiunse Aurora e si fuse con lei. Adesso Aurora era Artemisia e Artemisia era Aurora. Larìs assisteva inerme a questo fenomeno. Quando l'ultimo filo di fumo scomparve assorbito dal corpo di Aurora e il contenuto del calice si fu dileguato completamente, le due donne caddero in un sonno profondo ed ebbero la visone di ciò che era accaduto quattrocento anni prima. Aurora viveva la visione in prima persona, nei panni di Artemisia, mentre Larìs la viveva come spettatrice, mescolata alla folla che assisteva al supplizio della strega.
Artemisia era legata al palo: sotto i suoi piedi erano state sistemate parecchie fascine, derivanti dalla potatura degli olivi, e poi dei ciocchi più grossi di legna resinosa di pino e di abete. Il tutto era stato anche cosparso abbondantemente di olio per lampade. Agli altri quattro pali, che erano stati disposti a semicerchio dietro il suo rispetto agli spettatori, erano state legate le sue quattro compagne: Viola, Emanuela, Alessandra e Teresa, quest'ultima detta il maschiaccio, in quanto era stata sorpresa più volte mentre giaceva con altre donne e gli Inquisitori avevano scoperto addirittura che era un ermafrodita, un essere in cui convivevano organi sessuali maschili e femminili, una donna dal clitoride talmente sviluppato da simulare un piccolo pene, capace anche di raggiungere l'erezione. Queste quattro donne non sarebbero state bruciate, anche se qualche fascina era stata deposta ai loro piedi: avevano confessato le loro colpe e avevano indicato Artemisia come loro “guida spirituale”, pertanto erano state legate ai pali come monito e per assistere da vicino al supplizio della loro ispiratrice. Come mai stava per aver luogo l'esecuzione, dal momento che il Doge di Genova aveva messo il veto agli Inquisitori della Chiesa, assicurando alle donne che non avrebbe permesso, in quei tempi moderni, una condanna ad una morte così atroce? Il Doge andava fiero del fatto che un suo concittadino avesse scoperto, neanche un secolo prima, una nuova terra, l'America, mettendo fine ufficialmente a quel periodo buio che era stato il Medioevo: non avrebbe pertanto mai permesso che la Chiesa, tramite l'Inquisizione, avesse fatto bruciare vive pubblicamente queste donne, anche se erano state giudicate colpevoli di stregoneria, eresia, commistione con il diavolo, delitti contro Dio, contro la Chiesa e contro gli uomini. Il tutto era cominciato un anno e mezzo prima, nell'autunno del 1587, quando il Podestà, Stefano Carrega, e il Parlamento locale avevano indicato le streghe abitanti alla Ca Botina come principali responsabili della grave carestia, che da qualche tempo si era abbattuta su tutta la zona, e avevano chiesto al Vescovo di Albenga di istituire un processo alle presunte streghe, affinché fosse messa fine alle loro malefatte con una punizione esemplare: la condanna al rogo. Erano giunti in paese due Inquisitori, due frati Domenicani vestiti di nero: uno era il Vicario del Vescovo e l'altro il Vicario dell'Inquisitore di Genova. I “corvi”, come li chiamava la gente del luogo, fecero arrestare le cinque streghe abitanti alla Ca Botina, le quali, sotto tortura, accusarono molte altre donne del paese, non solo di origini contadine, ma anche appartenenti alle famiglie più nobili. Ad un certo punto, gli Inquisitori erano arrivati ad arrestare circa duecento presunte streghe e il Consiglio degli Anziani, considerato anche che già due donne erano morte, una per le torture inflitte, un'altra caduta da una finestra in seguito a un tentativo di fuga, decise di rivolgersi al Doge di Genova, perché ponesse rapidamente fine al processo e facesse sì che venissero condannate le vere streghe, quelle della Ca Botina, il gruppo strettamente legato ad Artemisia, in tutto tredici donne e una fanciulla di 13 anni. Il governo genovese, quindi, non del tutto convinto della regolarità del processo a Triora, decise di interessarsene più da vicino. Passarono pertanto alcuni mesi, in cui mentre il Doge di Genova e il Vescovo di Albenga non trovavano un accordo su di chi fosse la competenza di procedere, le donne rimanevano in prigione alla mercé di carcerieri che non risparmiavano loro umiliazioni e abusavano di loro, anche sessualmente. Nel successivo mese di Maggio, giunse a Triora l'Inquisitore Capo, per visitare le donne in carcere ed accertarsi della situazione. Dopo averle di nuovo sottoposte alla tortura del fuoco, confermò le accuse per le tredici donne e lasciò libera la ragazzina; le donne furono processate, con le accuse di reato contro Dio, commercio con il demonio, omicidio di donne e bambini. Ad Agosto si giunse alla conclusione del processo, con la condanna a morte per Artemisia e le altre quattro donne più strettamente unite a lei: Emanuela Giauni, detta Emanuela la Capricciosa, Viola e Alessandra Stella e Teresa Borelli,detta Teresa il Maschiaccio, per la sua abitudine di portare i capelli corti, vestire abiti maschili e giacere con altre donne. Quando sembrava che ormai l'esecuzione della condanna, per impiccagione e incenerimento dei resti, delle cinque fosse imminente, intervenne il Padre Inquisitore di Genova, chiedendo che fosse rispettata la sua carica, fino a quel momento estromessa dal processo. Spettava a lui, infatti, in quanto rappresentante dell'Inquisizione di Roma, giudicare i crimini delle streghe. Così, le cinque condannate vennero trasportate a Imperia e da lì, a bordo di una nave, fino a Genova, dove furono rinchiuse nelle carceri governative, in quanto l'Inquisizione non aveva posto sufficiente, andando a far compagnia ad altre presunte streghe provenienti da altre cittadine della zona. Tutto sembrava andare per il meglio, in quanto il Doge aveva promesso che avrebbe fatto in modo, ora che erano sotto la sua protezione, di salvare loro la vita. Le avrebbe tenute in carcere per un periodo, poi, quando la gente si fosse cominciata a dimenticare di loro, le avrebbe rese libere, col patto di non fare ritorno al loro paese di origine. Ma il maligno, sotto le spoglie mortali del Podestà e del capo del Consiglio degli Anziani di Triora, ci mise lo zampino: fu facile corrompere i carcerieri con poche monete d'argento, sostituire le cinque streghe con altrettanti cadaveri di povere donne, morte per malattia o per gli stenti dovuti alla carestia che ancora imperversava tra i monti dell'alta Valle Argentina, e riportare le cinque streghe a Triora per un'esemplare esecuzione pubblica.
Legata al palo, Artemisia ripercorreva con la mente le principali tappe della sua vita, a partire dalla sua iniziazione, avvenuta quando era poco più che tredicenne, nel cerchio magico creato da sua mamma, sua nonna e altre adepte della Setta, nei pressi della Fonte della Noce, una fontana situata sotto un grande albero di noci. Già allora aveva percepito la forte presenza del Maligno, una forza negativa all'esterno del cerchio, che voleva le sue vittime per assimilarne i poteri e diventare impareggiabile nella sua malvagia potenza. Gli insegnamenti che gli avevano trasmesso la mamma e la nonna, l'acquisizione dei poteri della veggenza e dell'uso del tatto e della vista, per percepire e guarire i mali del corpo e dell'anima, erano stati da lei sempre utilizzati a fin di bene. Aveva imparato i poteri curativi di certe erbe, era in grado di fare pozioni che abbassavano la febbre, che toglievano i dolori, che aiutavano le donne partorienti, che non avevano doglie sufficienti, a far uscire il nascituro; aveva imparato ad usare, alle giuste dosi, spore di funghi velenosi, da applicare su ferite infette, in modo da far regredire le secrezioni purulente. Aveva anche capito come prevenire il vaiolo, prendendo delle croste da persone malate, stemperandole in una mistura di erbe particolari, inoculando poi la sostanza così ottenuta con l'aiuto di appositi aghi in uova di gallina contenenti un pulcino, e richiudendo il foro con della cera. Prima che le uova schiudessero, prelevava l'albume, che, deposto su una piccola ferita praticata sul braccio con un coltellino, dava origine ad una limitata lesione da vaiolo: il suo paziente, così trattato, non avrebbe contratto mai più la malattia. Aveva imparato a fare talismani, a recitare le formule magiche di rito, ad eseguire incantesimi di invisibilità, a formare i cerchi magici protettivi. Non aveva mai usato i suoi poteri per scopi malvagi, mai: eppure era stata additata come strega e, insieme alle sue quattro compagne più fidate, Emanuela, Viola, Alessandra e Teresa, era stata imprigionata e torturata con la corda, con il fuoco, con l'acqua. All'inizio dell'Estate era giunto nella sua cella il Podestà, Stefano Carrega: era lui che aveva iniziato la caccia alle streghe e, in quel momento, Artemisia capì che era lui che rappresentava il male, la grande minaccia che incombeva su di lei e sulle sue amiche. Già indebolita dalle torture, completamente nuda, fu legata mani e piedi al “cavalletto”, due pali di legno disposti a X, a croce di Sant'Andrea, cosicché avesse braccia e gambe divaricate. I carcerieri le rasarono i peli della zona genitale, poi la lasciarono sola con il Podestà: egli si avvicinò, sollevando la tunica e mostrando un grosso pene già in erezione. Non c'era possibilità per Artemisia, legata com'era, di sottrarsi alla violenza sessuale, ma sapeva che doveva essere forte, non doveva assolutamente cedere al piacere, altrimenti, con l'atto sessuale, lui le avrebbe sottratto tutti i suoi poteri e le sue conoscenze, assumendole su di sé. Riuscì vittoriosa: mentre sentiva il caldo eiaculato penetrare nelle sue viscere, dispose la sua mente ad essere il più lontano possibile da lì, a vagare per i boschi a lei cari, e il suo corpo a non provare neanche un fremito, neanche un sussulto. Il Podestà era furibondo.
“Peggio per te, strega: morirai sul rogo, tu e le tue compagne, e, mentre brucerete, la forza delle fiamme trasferirà su di me i vostri poteri.”
Il fatto di aver vinto quella battaglia le aveva dato un barlume di speranza e quando, nonostante la condanna degli Inquisitori, lei e le sue quattro compagne vennero trasferite a Genova, pensò che il pericolo si stesse allontanando. Certo era che, dopo il rapporto col Podestà, non le era più venuto il ciclo mestruale: portava in grembo un figlio, o meglio, come poteva percepire, una figlia. Si rifiutava di pensare che fosse figlia del maligno: pensava che l'avrebbe comunque inizializzata alle pratiche magiche ed esoteriche, proprio come era stato fatto con lei da sua madre e da sua nonna, e che, anzi, quella figlia avrebbe avuto dei poteri soprannaturali veramente forti, in grado di contrastare qualsiasi potenza maligna e portare avanti nel bene la sua stirpe. Ma, dopo qualche mese, il maligno aveva ripreso in pieno le sue forze: si era alleato con il Consiglio degli anziani e aveva inviato a Genova degli uomini incappucciati per riportare lei e le sue quattro compagne a Triora, dove sarebbero state giustiziate. A Marzo Artemisia era quasi al termine della gravidanza: quando giunse a Triora, il capo del Consiglio degli anziani, Giulio Scribani, volle accertarsi personalmente del suo stato, in quanto non poteva permettere che, insieme alla strega, fosse bruciata sul rogo una creatura innocente. Artemisia usò tutti i suoi poteri per penetrare nella sua mente: si sarebbe sacrificata sul rogo, purché il suo sacrificio fosse servito a salvare sua figlia e le sue compagne. Il Podestà già aveva fatto allestire i cinque roghi e già pregustava lo spettacolo di quella sera, in cui, per una rara congiunzione astrale, in quel giorno di equinozio di primavera, giorno di plenilunio, si sarebbe verificata un'eclissi totale della luna. Ma Giulio impose il suo volere.
“Non voglio assistere a una barbara strage. Ho mandato una levatrice da Artemisia: conosce i sistemi per procurarle un parto anticipato. Il neonato sarà affidato a una nutrice. Solo Artemisia, che è la più potente delle streghe, sarà bruciata. Le altre, legate ai loro pali, assisteranno alla sua esecuzione e poi saranno marcate in modo tale che ognuno che le incontri le riconosca come streghe e le eviti: ognuna ha già uno strano tatuaggio sulla gamba destra, nella parte interna del polpaccio, che raffigura tre tomi, tre libri, e che rappresentano i libri che hanno consultato e che hanno studiato per diventare adepte della loro setta. Faremo completare quel tatuaggio con delle fiamme che avvolgano i libri: lo stesso tatuaggio sarà fatto ad ogni primogenito femmina nella discendenza di queste streghe!”
Il Podestà lanciò lampi di odio nei confronti dell'anziano, ma non poteva contraddirlo: bene, almeno la parte dei poteri di Artemisia la avrebbe potuta assumere. Ma Artemisia, legata al palo, in attesa che le fiamme fossero appiccate alla sua catasta, rimaneva concentrata e formava una barriera protettiva nei confronti delle sue amiche, che erano in contatto telepatico con lei, e la posizione a semicerchio degli altri patiboli dietro il suo favoriva la protezione. Così, quando dalla folla degli spettatori si levarono grida - “Non le risparmiate, bruciatele tutte!” - e un uomo, con una torcia accesa in mano, riuscì a scavalcare la barriera delle guardie e avvicinare pericolosamente la fiamma al rogo di Teresa, questo non si incendiò e due guardie presero sottobraccio l'uomo e lo rispedirono in mezzo al pubblico con un calcio sul sedere. L'uomo rotolò a terra e si fermò proprio ai piedi di Larìs, che gli lanciò uno sguardo di disapprovazione. Pochi istanti dopo, il boia prese una torcia da un braciere, prima la sollevò in alto per mostrare a tutti le fiamme, dopo di che la avvicinò alla catasta di legna disposta ai piedi di Artemisia, che si incendiò immediatamente. Artemisia, prima che le fiamme cominciassero ad avvolgere il proprio corpo, rivolse lo sguardo alla luna, che in quel momento era completamente oscurata dal fenomeno dell'eclissi e percepibile solo come una sfera scura circondata da un alone argentato, e lasciò andare il suo spirito. Doveva assolutamente evitare che i suoi poteri e la sua sapienza si trasferissero a Carrega, indirizzandoli invece, con l'aiuto telepatico delle compagne, alle quali il suo sacrificio aveva salvato la vita, verso la sua bambina, che aveva da poche ore partorito e che si sarebbe chiamata Aurora, come la luce del primo mattino che precede l'alba. In breve, le fiamme ebbero ragione del corpo di Artemisia e lo avvolsero: la donna si trasformò in torcia umana, i capelli bruciarono, i vestiti si incenerirono, lasciando scoperta la carne, che diventò prima rossa, poi nera. La sagoma di Artemisia, che ancora si contorceva, era ormai solo intuibile in mezzo al muro di fuoco, che ardeva rombante. Alla fine, il fumo e le fiamme penetrarono nei polmoni di Artemisia, che, con un ultimo prolungato grido di dolore, spirò.
Quando Aurora e Larìs ritornarono alla realtà erano ancora nude, distese sul freddo pavimento di marmo, ma nonostante ciò i loro corpi erano imperlati di sudore per la tensione dell'esperienza appena vissuta. Aurora, ancora stordita, prese un Kimono di seta, lo indossò e ne offrì uno simile alla ragazza, che era in preda ai brividi e fu ben felice di metterselo addosso; quindi andò in cucina a preparare una tisana rilassante, tornando dopo qualche minuto con due tazze fumanti, che spandevano un aroma di menta nel salone.
“Perché abbiamo avuto questa visione, che significato ha?” chiese Larìs, cominciando a riprendersi.
“Credo di aver capito che il maligno, che è rimasto quiescente per quattro secoli, stia riprendendo vigore e voglia sacrificare delle vittime per aumentare la sua forza e la sua potenza. Dobbiamo fare attenzione, perché quelle vittime potremmo essere io, tu, o le altre nostre sorelle, discendenti da coloro che quattrocento anni fa scamparono alla morte tra le fiamme.”
“Come possiamo prepararci ad affrontarlo? Abbiamo abbastanza forza per farlo?”
“Mia cara Larìs, tu ed io dovremo affrontare un lungo e periglioso viaggio fino al tempio dove vive il Grande Patriarca, che ci offrirà l'accesso al sapere universale, di cui Lui è custode. Ci sarà data la forza e la sapienza necessaria.”
Passo dopo passo, reggendosi alle corde laterali, erano giunte circa a metà di quel ponte che oscillava pericolosamente a ogni loro movimento; una folata di vento più forte fece gelare letteralmente il cuore di Larìs, che cercò di nuovo gli occhi di Aurora, per sentirsi rassicurata. Con cautela, le due sfilarono gli zaini dalle spalle, indossarono le giacche a vento e proseguirono fin quasi a raggiungere la radura erbosa al di là del ponte. Da lì partivano almeno cinque sentieri, che si dirigevano in direzioni diverse: quale poteva essere quello giusto da seguire? Aurora vide due rami incrociati con della terra smossa intorno; cercò un lungo ramo e, facendo attenzione a non andare a calpestare la terra smossa, distrusse la croce, con lo stesso ramo disegnò poi un cerchio in terra, recitando delle parole, che Larìs riconobbe come quelle di un contro incantesimo. Era chiaro che qualcuno aveva fatto un sortilegio per metterle in difficoltà sul cammino da seguire: ma Aurora aveva molta esperienza in fatto di sortilegi e incantesimi. Completato il cerchio e rivolte le parole verso il cielo, immediatamente fu evidente che dalla radura partiva un solo sentiero ed era quello che dovevano seguire: attraversata la lingua di un ghiacciaio, il sentiero cominciò a discendere, fino a che le praterie d'altura lasciarono il posto ad un bosco, che si faceva via via sempre più fitto man mano che si scendeva. Ad ogni bivio, ad ogni biforcazione del sentiero, le due, d'istinto, sapevano quale direzione seguire: il bosco offriva frutti e bacche mangerecci e ogni tanto trovavano una fonte d'acqua fresca, per cui, anche se i viveri di scorta cominciavano a scarseggiare, non c'era modo di dover soffrire la fame o la sete. Anche le temperature si erano fatte più gradevoli e non c'era più bisogno delle giacche a vento; al quinto giorno di cammino, uscendo dal fitto bosco si ritrovarono in una vallata meravigliosa, in fondo alla quale videro la loro meta. Il tempio era una costruzione antichissima, doveva avere millenni, ma essendo in una zona così inaccessibile ai comuni mortali, essendo solidamente costruito sulla roccia e non essendosi mai verificati eventi sismici in quel luogo, si era mantenuto intatto nel corso dei secoli e dei millenni. Ma quello che destò immediatamente lo stupore delle due donne fu la centrale idroelettrica che si intravedeva sul retro del tempio: una cascata, che con forza cadeva da una parete a strapiombo della montagna, da un'altezza di diverse centinaia di metri, alimentava delle turbine, che fornivano energia elettrica all'antico edificio. Accanto alle turbine, una serie di pannelli solari provvedevano a fornire probabilmente acqua calda e, forse, contribuivano anch'essi in parte a generare energia elettrica. Un antesignano impianto fotovoltaico, probabilmente non ancora in funzione, completava la centralina, che rendeva quell'oasi completamente autonoma dal punto di vista energetico.
Giunte all'ingresso del tempio, due uomini dall'aspetto fisico incredibilmente perfetto, le accolsero.
“Siate benvenute al tempio della Conoscenza e della Rigenerazione. Il Grande Patriarca vi sta aspettando e, appena possibile, vi riceverà. Nel frattempo saremo le vostre guide, vi condurremo ai vostri alloggi e faremo in modo di rendere piacevole la vostra visita in questo incantevole luogo. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, chiedete e cercheremo di accontentarvi. Io sono Ero e il mio compagno è Dusai.”
I due uomini, vestiti solo con una corta tunica colorata, erano alti e possenti, i muscoli evidenti sembravano scolpiti come quelli delle antiche statue Greche, tanto erano perfetti. Ero aveva capelli biondi, ricci, piuttosto lunghi, carnagione chiara, anche se lievemente abbronzata, e occhi azzurri del colore del cielo; Dusai era moro, aveva capelli neri corti, occhi scuri e la carnagione del colore dell'ebano. Mentre Dusai si prendeva cura di Aurora, Ero si inchinò avanti a Larìs e prese cortesemente il suo bagaglio: i quattro, attraversato un cortile perfettamente quadrato, si addentrarono nell'edificio e camminarono lungo corridoi finemente decorati, ora con scene di caccia, ora con scene di guerra, ora con scene di accoppiamento tra animali. Arrivarono, alla fine, ad un chiostro, al centro del quale c'era una piscina, mentre sotto i portici si aprivano le porte delle stanze degli ospiti. Qui le decorazioni rappresentavano accoppiamenti tra uomini e donne, in tutte le posizioni possibili e immaginabili tratte dai più impensabili manuali di Kamasutra.